Popolo di Dio, rischi e sfide di un concetto
Marcelo Barros 10/09/2022, 16:05
Tratto da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2022
La continua lotta di papa Francesco contro il clericalismo e i suoi sforzi affinché la sinodalità diventi il modo normale di essere Chiesa sono legati a un concetto del Concilio Vaticano II che ha avuto scarsa accoglienza e quasi nessun approfondimento nei documenti ecclesiastici successivi: il concetto di Popolo di Dio, gravido di una nuova prassi. In America Latina, i sociologi hanno tentato di elaborare una concezione più precisa di “popolo”, non come nazione né come moltitudine indifferenziata, bensì come classi subalterne, organizzate, in contrapposizione all’élite. Nel suo libro E a Igreja se fez povo, Leonardo Boff mostra come tale concetto sia entrato nella riflessione del Vaticano II e quali conseguenze abbia avuto. E padre José Comblin ha dedicato al “popolo di Dio” uno dei suoi ultimi libri.
Il Popolo di Dio nel Vaticano
II È nella Lumen gentium (1964) che il Concilio afferma che la Chiesa è chiamata a essere Popolo di Dio. Tale concetto è sorto come reazione all’ecclesiologia anteriore, centrata sulla differenza tra gerarchia e laicato. Ed è stato accolto assai bene dal Movimento Biblico, interessato a recuperare la continuità della Chiesa con il popolo biblico del primo Testamento.
Oltre alla ripresa di un concetto che non era usato dal tempo della Patrologia, la novità più grande è stata quella di porlo, su proposta di Yves Congar, uno dei più grandi teologi francesi dell’epoca, come titolo e tema del secondo capitolo della Lumen gentium, prima ancora di affrontare il carattere gerarchico della Chiesa. Ciò ha rappresentato un profondo cambiamento nella comprensione della fede e del mistero della Chiesa. Questi gli argomenti che l’hanno giustificato: 1) Il “Popolo di Dio” è un concetto biblico e pone la Chiesa in una prospettiva storica e in relazione con la sua stessa vocazione. 2) Esprime l’uguaglianza fondamentale tra tutti i fedeli, laici e chierici. 3) Evidenzia la diversità dei ministeri, doni e servizi nell’unità della stessa Chiesa. 4) Contribuisce alla sfida ecumenica del Concilio e 5) apre maggiormente alla missione nel mondo. Per questo, padre José Comblin ha affermato: «Se volessimo esprimere in una parola ciò che il Concilio ha portato alla Chiesa, dovremmo dire: ha ricordato alla Chiesa che essa è popolo di Dio».
Nell’aula conciliare, il testo della Lumen gentium è stato approvato quasi unanimemente dai vescovi, per quanto molti non ne abbiano compreso la profondità e le conseguenze. In ogni modo, come afferma Comblin, «senza l’ecclesiologia del popolo di Dio, né la Gaudium et spes né il decreto Ad gentes (sulla missione) sarebbero stati ciò che sono. La relazione tra Chiesa e mondo sarebbe stata irrilevante (…) come tante volte è stata in passato. Una volta che si attribuisce al popolo di Dio una realtà pienamente umana, la partecipazione agli eventi e ai movimenti dell’umanità va acquistando un significato cristiano e salvifico».
La reazione del Vaticano
Proprio cogliendo l’importanza di tale concetto per il rinnovamento della Chiesa, persone e gruppi ostili al Concilio presero posizione contro questo modo di comprendere la Chiesa.
Dall’inizio del suo pontificato, Giovanni Paolo II ha cercato in tutti i modi di restaurare nel mondo un progetto di cristianità in cui la gerarchia riprendesse il suo ruolo di potere. Per riuscirci, era fondamentale spazzare via il concetto di Popolo di Dio, come è stato fatto, principalmente, nel Sinodo dei vescovi del 1985, in occasione della celebrazione dei 20 anni dal Concilio, quando tale concetto è stato sostituito dalla definizione della Chiesa come Comunione. L’attuale Codice di Diritto Canonico e il Catechismo della Chiesa cattolica, promulgati da Giovanni Paolo II, ignorano il concetto di Popolo di Dio, con tutte le sue conseguenze.
Per Ratzinger, Popolo di Dio è un’espressione più sociologica che teologica che non esprime il mistero centrale della Chiesa. È chiaro che nessun concetto abbraccia tutto il mistero e, di fatto, il Concilio ha affrontato il tema della Chiesa come Mistero. Ratzinger e i teologi della curia non avevano ragione ad affermare che “Popolo di Dio” sia un’espressione meno teologica di altre, ma non si sbagliavano nel riconoscere come tale espressione esigesse cambiamenti radicali – che essi non volevano – nel modo di essere Chiesa.
Conseguenze e sfide della Chiesa come Popolo di Dio
Con tale concetto, il Concilio mette in chiaro che, insieme a tutta l’umanità, la Chiesa è chiamata a essere “Popolo di Dio” (LG 13). Il progetto divino è l’unità di tutti i figli e le figlie di Dio come fratellanza universale, nella linea poi sviluppata da papa Francesco nella Fratelli tutti. Tutti gli esseri umani sono chiamati ad appartenere al nuovo Popolo di Dio.
Comblin insiste: «Mostrando nella Chiesa un popolo, il Concilio ha chiuso le porte all’individualismo, proprio nel momento in cui questo cominciava a trionfare nella società occidentale». Ciò significa che, oggi, tale concetto acquista ancora più attualità.
Il Concilio afferma che l’umanità intera è chiamata a partecipare della vocazione profetica della Chiesa che è la testimonianza del regno di Dio attraverso la costruzione di una società a partire dalla giustizia eco-sociale e dalla pace. In tal senso, il Concilio definisce il Popolo di Dio come “popolo messianico”, ossia portatore della speranza messianica che è speranza di trasformazione del mondo.
Questo “popolo messianico” (LG 9b) è come il germe dell’umanità nuova e ha la vocazione profetica di rinnovare il mondo, con le relative conseguenze in termini di sacerdozio universale di tutte le persone battezzate (LG 10) e di ciò che la teologia femminista definisce come “discepolato di uguali”.
La teologia del Popolo di Dio ci dice che se tutti i battezzati sono popolo di Dio, la Chiesa può e deve essere ministeriale senza essere gerarchica. E ciò comporta il superamento del modello ecclesiologico della cristianità: società gerarchica con potere nel mondo. Il capitolo 2 della Lumen gentium riprende l’insegnamento di Paolo in base a cui il battesimo offre cittadinanza a tutti e tutte, in uguaglianza di condizioni (cfr. Gl 3,28). Per questo, come affermava la teologa Ana Maria Tepedino, «nella Chiesa tutti e tutte sono fratelli e sorelle e come famiglia devono vivere nella casa comune un nuovo tipo di relazioni di riconoscimento, accoglienza e rispetto delle alterità, attraverso atteggiamenti di fiducia reciproca». Allo stesso modo, la Chiesa non diventerà mai sinodale se non supererà il vizio della gerarchia. Voler conciliare sinodalità e principio gerarchico è come cercare la quadratura del cerchio.
La Chiesa deve essere strutturalmente sinodale per fermentare il mondo con la proposta di camminare insieme a partire dal dialogo e dalla collaborazione fraterna, che, come si legge nella Fratelli tutti, è compito di tutta l’umanità.
In quanto Popolo di Dio, la Chiesa è solidale con le altre organizzazioni umane che mirano a stabilire in maniera giusta la convivenza umana sulla terra e deve inserirsi nella realtà sociale e politica impegnandosi insieme ai movimenti sociali e alle persone di buona volontà a costruire un nuovo mondo possibile.
Ma in ciò la Chiesa ha una specificità: deve realizzare questa missione da basso, come ha fatto Gesù: assumendo la vocazione di essere Chiesa dei poveri e prioritariamente per i poveri. «Per far scendere dalla croce i popoli crocifissi», come affermava il martire Ignacio Ellacuría.
Leonardo Boff e José Comblin hanno ragione a considerare che il concetto di Popolo di Dio si concretizza nella vocazione a stare insieme ai poveri e a partire dai poveri, contro l’ingiusta povertà, come ha sempre insegnato la Teologia della Liberazione.
Per noi in America Latina, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellín (1968) ha attualizzato il concetto di Popolo di Dio proponendo proprio una Chiesa povera e impegnata con la liberazione di tutta l’umanità e di ogni persona nella sua interezza.
E questa vocazione profetica di costruzione di un nuovo mondo possibile in cui i popoli oppressi siano liberati esige anche una ecumenicità reale e radicale della Chiesa. I padri conciliari erano consapevoli che adottando per la Chiesa la definizione di Popolo di Dio stessero andando oltre i muri della Chiesa cattolica. Come afferma la Fratelli tutti, la vocazione di essere Popolo di Dio implica riconoscere come sorelle le altre Chiese cristiane e anche le altre religioni che camminano insieme nella costruzione della stessa fraternità universale. Già nel 1982, del resto, la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese aveva elaborato il documento Battesimo, Eucaristia, Ministero, nella cui introduzione si legge: «Dio invita tutta l’umanità a diventare Popolo di Dio. La missione della Chiesa di proclamare il regno di Dio si fonda su questo invito».
Tale vocazione si concretizza nelle organizzazioni che uniscono persone di diverse religioni e scuole di spiritualità nella lotta per la promozione umana e la liberazione delle persone, anche a partire da una lettura delle scritture sacre di ogni tradizione e dalla loro reinterpretazione da parte delle comunità religiose inserite in movimenti popolari. Al riguardo, il teologo dello Sri Lanka Aloysius Pieris afferma che anche il cristianesimo in Asia ha vissuto questo cammino di ecumenismo popolare e liberatore «non nei seminari o nelle case degli ordini religiosi, ma nelle comunità di base in cui il magistero dei poveri è considerato seriamente. (…). L’origine, lo sviluppo e il culmine delle attività della comunità umana di base è la liberazione delle non-persone e dei non-popoli». Che sia questo il modo di attualizzare il concetto di Popolo di Dio, in America Latina, in Europa e in ogni luogo del mondo.
Marcelo Barros ecoteologo, biblista e saggista brasiliano, tra i più stimati a livello globale, è stato collaboratore di dom Hélder Câmara. Animatore delle Comunità ecclesiali di Base e membro dell’Associazione Ecumenica dei Teologi del Terzo Mondo (Asett). Articolo già comparso su “Adista Documenti” n.30/22.
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