Resistenze istituzionali e teologia in America Latina
Marcelo Barros 09/07/2021, 00:32
Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 17/07/2021
In molti hanno paragonato papa Francesco a papa Giovanni XXIII. È chiaro che Francesco ha riaperto il dialogo fraterno con l’umanità che papa Giovanni aveva iniziato e che i suoi successori non hanno saputo, o voluto, portare avanti. E che ha ripreso il cammino di rinnovamento ecclesiale proposto dal Vaticano II, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano interrotto e ostacolato. Tuttavia, il confronto tra i due non può nascondere una grande differenza rispetto alla teologia.
Dopo tre mesi dalla sua elezione, Giovanni XXIII annunciava, il 25 gennaio 1959, un Concilio ecumenico per il rinnovamento della Chiesa e l’unità dei cristiani. A otto anni dall’inizio del ministero di papa Francesco, in tutto il mondo cattolico si respira un clima più disteso e libero. Il papa ha compiuto importanti gesti profetici. Ha scritto encicliche ed esortazioni che sono di grande aiuto. Ha offerto al mondo la testimonianza di un cristiano impegnato nella giustizia e nella spiritualità ecumenica. Ha smitizzato la figura papale e per la prima volta ha valorizzato le Chiese locali e la sinodalità. Non è poco.
Tuttavia, dal punto di vista canonico e teologico, poco è cambiato. A oggi, chi esamina l’organizzazione delle diocesi e delle parrocchie può facilmente constatare come l’ecologia integrale e la preoccupazione per la giustizia sociale e la fraternità umana siano accettate dalla maggior parte dei vescovi, dei preti e dei gruppi cattolici, ma continuino a essere viste come questioni in un certo senso esterne alla fede o supplementari, e non come parte del nucleo del Credo, della spiritualità e della liturgia. Salvo alcune onorevoli eccezioni, gli episcopati e il clero resistono a qualunque tentativo di apertura della società sui temi della morale sessuale, della diversità e dei diritti riproduttivi, pur convivendo con naturalezza con il razzismo strutturale, la violenza istituzionale, i disastri ecologici provocati dal capitalismo e così via.
Quando, nel 1961, Giovanni XXIII convocò il Concilio, esisteva un movimento teologico che avrebbe fornito la base per il rinnovamento da realizzare. La proposta di papa Giovanni era caduta sulla Chiesa come la prima pioggia di primavera su un terreno secco e arido, ma i semi erano lì, in attesa di sbocciare. Senza voler minimizzare le immense difficoltà sofferte da profeti come Hélder Câmara, Giacomo Lercaro, Massimo IV e tanti altri, era bastato l’invito a contribuire alla preparazione del Concilio per mettere subito in campo grandi nomi della teologia come Yves Congar, Dominique Chenu, Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar, Luigi Sartori, Giuseppe Colombo, Otto H. Pesch, Hans Küng e molti altri.
Oggi vi sono senza dubbio eccellenti teologi e teologhe. Tuttavia, chi di loro consiglia realmente ed effettivamente il papa? Anche se Francesco dialoga con tutti e si mostra aperto a citare anche coloro che prima non venivano mai nominati, stiamo ancora pagando il prezzo di 35 anni di repressione nei confronti di qualunque ricerca teologica che non fosse curiale e osasse andare oltre la mera ripetizione dei documenti papali.
Tanto nel continente europeo quanto in America Latina si è molto discusso se la teologia di papa Francesco derivi o meno dalla Teologia della Liberazione (TdL). Ma il punto non è quello dell’adesione o meno del papa alla TdL, bensì quello della reale capacità da parte delle Chiese locali di accogliere le sue aperture.
Nel dicembre del 2016, un’inchiesta realizzata da una rivista brasiliana sugli eventuali cambiamenti provocati dalle proposte del papa nelle attività pastorali delle diocesi del Brasile non venne pubblicata perché troppo negativa e perché accusata di mancanza di scientificità. Ma chiunque può rendersi conto di come la proposta di una Chiesa in uscita, la centralità dei poveri nella vita della Chiesa, il rispetto del pluralismo e la visione della cattolicità come diritto alla diversità non siano elementi assunti dalle diocesi e dagli istituti cattolici di insegnamento. Nella maggior parte dei casi, vescovi e preti conservano la cultura clericale sempre criticata dal papa. A riprova che il clericalismo non è solo un abuso del sistema. È il sistema stesso. E le ripercussioni sulla teologia sono profonde.
Ancora oggi, le strutture cattoliche non favoriscono la ricerca teologica più libera e creativa. Quasi non esiste seminario o istituto teologico di formazione aperto alle teologie della liberazione o contestuali, le quali continuano a essere promosse dai movimenti di base, ma con scarsa o nessuna accettazione nelle strutture delle Chiese locali.
Teologie della liberazione e teologie sulla liberazione
Fin dalle sue origini, la TdL si caratterizza per l’impegno ad approfondire la fede e la spiritualità a partire dalle esperienze di base e dalla realtà concreta.
È bene che nelle università e nei centri di ricerca si sviluppino riflessioni di carattere sociale e politico nel segno della TdL. Ma si tratta più di una Teologia sulla Liberazione che di una vera Teologia della Liberazione.
In entrambi i casi, però, si sono sviluppate in America Latina e nel mondo intero teologie contestuali come le teologie nere, indigene, queer o l’ecoteologia. Tutte attraversate dal pensiero decoloniale. In questo campo non si può certo dire che “nulla di nuovo è apparso sotto il sole”.
Nel 2013, lo stesso anno in cui Francesco ha assunto il ministero di vescovo di Roma, a São Leopoldo, nel sud del Brasile, si svolgeva il Congresso Continentale di Teologia sul tema “La Teologia della Liberazione in prospettiva”: un incontro segnato da una grande pluralità di visioni e da un dialogo fecondo tra teologi e teologhe delle prime generazioni della TdL e un grande gruppo di giovani che si sono rivelati all’altezza delle attuali sfide e sono usciti da lì con un orizzonte più chiaro.
Se nei primi decenni della TdL le produzioni erano più individuali, oggi la riflessione è diventata più comunitaria o collettiva e si realizza all’interno di istituzioni teologiche come Amerindia, Soter, Forum mondiale di teologia e liberazione, Asett.
Sfide teologiche dopo il Sinodo dell’Amazzonia
A due anni dal Sinodo, la regione panamazzonica e molte Chiese locali vivono il nuovo clima ecclesiale da esso suscitato. Pur con i limiti emersi dall’esortazione post-sinodale Querida Amazonia, papa Francesco ha praticamente ufficializzato le proposte del Sinodo, a cominciare dalla necessità di un nuovo modo di essere Chiesa, di una nuova ecclesialità, più partecipativa, in cui il potere e il controllo della verità cedano il loro spazio al dialogo come istanza di collaborazione. In altre parole, la necessità che la Chiesa si disponga a una “conversione pastorale samaritana”.
In realtà, questo dialogo teologale e spirituale ha interpellato maggiormente un’America Latina che, negli anni più recenti, ha vissuto sul piano sociale e politico, ma anche nel panorama religioso, un movimento di chiusura istituzionale di carattere violento, misogino, elitario e neocolonialista. Questa realtà politica attraversa tutte le classi sociali ed è penetrata anche nelle Chiese e nello stesso clero cattolico. Attualmente ne stiamo raccogliendo i frutti. Movimenti spiritualistici di natura fondamentalista e devozionale dominano le comunità locali all’interno delle diverse confessioni.
Anche così, il clima di apertura generato dal post-Sinodo ha reso possibile la creazione della Conferenza Ecclesiale dell’Amazzonia (Ceama) che non è più episcopale ma ecclesiale. Allo stesso modo, papa Francesco ha fissato per novembre la realizzazione di un’Assemblea ecclesiale latinoamericana che sembra sostituire quella che sarebbe stata la VI Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e caraibico.
Chi legge i testi dei fratelli e delle sorelle dei diversi gruppi di teologia latinoamericana (Soter, Amerindia, Asett e altri) difficilmente si renderà conto a quale Chiesa appartenga l’autore o l’autrice. Le teologie attuali mostrano come le antiche divisioni istituzionali non esistano praticamente più. I cammini proposti dal Sinodo dell’Amazzonia, dalle diverse campagne della Quaresima (come in Brasile la Campagna di Fraternità), dalle pastorali sociali, da tutte le espressioni missionarie sono essenzialmente ecumenici. Tuttavia, con onorevoli eccezioni, la maggior parte dei vescovi e dei preti non ha una formazione teologica né una cultura ecclesiale ecumenica adeguate. Di conseguenza, e sempre con felici eccezioni, le diocesi approfittano poco delle aperture ecclesiologiche e macro- ecumeniche realizzate dal Documento Finale del Sinodo e da Querida Amazonia.
Il dialogo con i diversi tipi di sciamanesimo esistenti in tutto il continente (non solo nella regione amazzonica) e con le spiritualità afrodiscendenti non può limitarsi alla sfera interculturale legata alle teologie indie cristiane e alle teologie nere cristiane.
Le nuove teologie della liberazione si sentono chiamate a imparare dalle saggezze originarie non cristiane e ad approfondire una teologia pluralista liberatrice a partire dall’ecumenismo proprio delle tradizioni spirituali dei più poveri. È così che l’ecologia integrale si trasformerà in eco-sofia.
La discussione avviata in altri continenti su “un cristianesimo non religioso” non è stata ancora molto affrontata in congressi e incontri latinoamericani. Senza dubbio, in Amazzonia e in tutta l’America Latina una spiritualità non teista assumerà forme proprie e diverse. Certamente adotterà lo stile e i cammini di un nuovo sciamanesimo, a partire dal quale saremo chiamati/e ad ascoltare ciò che oggi lo Spirito dice alle Chiese e al mondo.
Ecoteologo, biblista e saggista brasiliano, tra i più stimati a livello globale, Marcelo Barros è stato collaboratore di dom Hélder Câmara. Animatore delle Comunità ecclesiali di Base e membro dell’Associazione Ecumenica dei Teologi del Terzo Mondo (Asett).
Dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell’autore.
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