Rom, Storia di un popolo negato
UN’ORDA DI ARTISTI SI AGGIRA PER L’EUROPA
Rom, Storia di un popolo negato lunedì 1 gennaio 2018 di Marcella Delle Donne Società civile e gruppo etnico: differenze. |
Danze di gitane
Per parlare di “zingari” cioè di rom, è necessario chiarire la fondamentale differenza tra “società civile” e gruppo etnico.
La nascita del mondo moderno in occidente pone in essere la “società civile”, determinata dall’avvento dell’economia mercantile, basata sul valore di scambio, il denaro, la proprietà privata, sulla rinascita dello spazio urbano, come spazio-tempo della società mercantile. La “società civile” è posta in essere dall’emergere di una figura nuova: il borghese-mercante, artefice del passaggio dalla società medievale, basata sul valore d’uso, su ciò che vale, dura nel tempo, sullo spazio tempo naturale scandito dai cicli delle stagioni, al mondo moderno. |
Mercanti
Nella “società civile”, l’individuo in grado di autoregolarsi, in quanto dotato di ragione, è produttore di storia. Una storia posta, prodotta dal soggetto, nel processo della sua autodeterminazione, sia come singolo, come realtà in sé, sia come cives, come soggetto di diritto, come cittadino.
Tale soggetto ribalta l’ordine gerarchico tra le massime istituzioni del sistema: Dio, Stato, suddito, o più semplicemente ribalta il rapporto individuo-società, cittadino-Stato (Delle Donne M., La società civile e l’origine della ragione sociologica, 1993).
In questa accezione, è l’individuo, come membro del gruppo, che pone la società; è il cittadino, come soggetto di diritto, che pone lo Stato (A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile,1767). Il gruppo etnico si pone in modo specularmente opposto all’organizzazione della “società civile” e richiede una conoscenza approfondita da parte di chi, come noi occidentali, sia immerso e fagocitato entro la “società civile”. Nello spazio-tempo etnico, non c’è soluzione di continuità tra individuo e gruppo, cioè tra individuo e società. Ogni membro di un contesto etnico acquisisce una identità mediata dal gruppo di appartenenza. Nel mondo etnico non si ha una percezione di sé come singolo, se non come membro della comunità che a lui conferisce identità attraverso la trasmissione di coordinate di senso e scopo dell’esserci, del vivere nel gruppo di appartenenza. La specificità ett |
A.Ferguson Saggio sulla Storia della
società civile 1767
etnica del gruppo si pone, quindi, prima dell’individuo e lo sussume nell’identità della comunità. Ciò determina una autoreferenzialità di gruppo che imprime negli individui la forza di coesione e la resistenza di fronte agli interventi di assimilazione di sistemi sociali esterni, come è il caso della “società civile” nei confronti dei rom. (Delle Donne M., Convivenza civile e Xenofobia, 2000).
Chi sono i rom I rom, provenienti dall’India, giungono in Europa in gruppi di famiglie organizzate in clan parentali. Gli studiosi sull’origine e sulla storia dei rom rintracciano cinque gruppi principali tra le popolazioni Romanè, distinti per attività, regione indiana di provenienza, regione europea di inserimento: Rom, Sinti, Kalè, Manouches, Romanichals, i quali, con i loro numerosi sottogruppi, formano la popolazione Romanè (Spinelli S., Baro romano drom, 2003). Durante il primo World Romanì Congress del 1971, i rappresentanti rom di 14 Stati sono riuniti a Londra e hanno stabilito che il termine “rom” sarebbe stata la parola giusta per rappresentarli tutti. |
Spinelli S., Baro Romano drom, 2003
I rom, al loro arrivo, si caratterizzano nelle attività artistiche come musicisti, danzatori, giocolieri, giostrai, dediti alle attività circensi, per questo in continuo movimento. Sono, anche, esperti artigiani, nella lavorazione del ferro, del rame, come conciatori, canestrai, abili nell’addestrare e nel commerciare i cavalli. Siamo intorno al 1300, quando in Europa esistono vasti territori disabitati, università agrarie, dove è consentito il libero pascolo e la raccolta di quanto la natura produce. Ciò consente ai rom migranti la possibilità di sostare e di approvvigionarsi. |
Festival di arte e musica Rom
É il periodo conclusivo in cui le popolazioni europee migrano in cerca di territori dove stabilizzarsi. Accoglienza dei Rom a Corte e nei villaggi. Nei sistemi feudali e aristocratici i Rom sono ben accolti, in particolare ad alto livello. Le aristocrazie se li contendono per le feste al suono del cimbalon, pagando cifre esorbitanti ai rom che rallegrano le loro feste. Čajkovskij nell’opera La pulzella d’Orleans mette in bocca a Giovanna d’Arco un duro rimprovero ai sovrani di Francia, esortandoli a finanziare gli eserciti, invece di sperperare ingenti somme di denaro pagando i gitani per le feste. |
Sulle capacità artistico musicali dei rom, ci sono studi accreditati che attribuiscono ai Rom l’invenzione del violino. Sulla nascita e la costruzione del volino ad opera dei Rom, esiste una favola bellissima nella cultura rom, condivisa dai diversi gruppi di appartenenza. L’importanza della musica rom e l’influenza di essa sullo sviluppo della musica classica europea è testimoniata da Liszt in un suo saggio e riscontrabile nelle rapsodie di Brahms e dello stesso Liszt. Influenze della musica rom si avvertono anche in Dvorak e Čajkovskij. |
I Rom e i cavalli
Violinista Rom
I rom, al loro apparire in Europa, sono bene accetti anche a livello popolare, perché offrono prestazioni come artigiani e sono una presenza importante nelle fiere per l’addestramento e il commercio dei cavalli. Al loro arrivo i Rom si muovono come pellegrini, conformemente alle popolazioni in movimento che migrano in cerca di territorio. In quanto pellegrini è concesso loro di chiedere l’elemosina. |
La carovana di zingari vicino Arles
(Vincent van Gogh, 1888)
Inoltre i Rom si presentano con la lettera di un fantomatico re d’Egitto, nella quale si chiede alle popolazioni di concedere ospitalità e supporto alimentare ai Rom che attraversano i loro territori.
I Rom nella Società mercantile.
Le cose cambiano con l’avvento della società e dell’economia mercantile, dove ciò che conta è il profitto, il lavoro, il valore di scambio, il merito per chi vive il lavoro come obbligo e dovere morale (Weber M., Etica protestante e spirito del capitalismo, 1905). L’importanza della proprietà privata, legittimata dal proprio lavoro, conduce alla diffusione delle cosiddette Chiudende, dove i campi liberi vengono recintati ed è impedito l’accesso. I Rom come artisti, artigiani, liberi e girovaghi, non si assoggettano al lavoro nelle manifatture, né al lavoro coatto. Nella cultura Romanì non è previsto il lavoro come principio morale, soprattutto il lavoro dipendente, né l’obbligo della stabilità e della stanzialità residenziale. L’immagine che, nel mondo moderno dell’economia mercantile, i Rom offrono alle popolazioni, ormai stanziali nelle realtà statuali, cambia radicalmente. I Rom da pellegrini diventano vagabondi. Il rom diventa lo zingaro, membro della vituperata categoria dei nomadi, che vivono senza lavoro, senza fissa dimora, e la cui filosofia di vita è il furto. |
Max Weber, Etica
Protestante e spirito
Un popolo senza radici, senza identità, senza il valore del lavoro e quindi senza merito. Lo zingaro è uno sradicato che si muove come una mina vagante, sfuggendo ai controlli. É un parassita che vive depredando gli altri, minaccia delle istituzioni che non rispetta, prima fra tutte la proprietà privata. É una figura non identificabile e tantomeno assimilabile (Delle Donne M., Relazioni etniche, 2000). |
del capitalismo, 1900
Gente Romaní in Spagna – (Yevgraf Sorokin, 1853)
Le politiche statali dal rifiuto alla schiavitù.
Cominciano, all’inizio del XVI secolo, i primi bandi di espulsione: “Chi colpisce gli zingari non commette reato […] niente di buono può venire da questa gente maledetta”, così recita la Dieta di Asburgo nel 1500. L’Assemblea di Lucerna proibisce agli zingari di sostare sul territorio svizzero già nel 1471. La Spagna bandisce gli Ebrei, i Mori e gli Zingari nel 1499.
I gitani, o devono abbandonare la vita errante, o sono costretti a lasciare il paese. Nel 1500 l’imperatore Massimiliano emana la prima ordinanza contro la presenza zingara nel Sacro Romano Impero. In Francia vengono emanati una serie di provvedimenti per scacciare i Rom. Per coloro che vagabondano nel regno senza salvacondotto è prevista la morte. Nel Ducato di Milano, già nel 1506, viene pubblicato un editto in cui si dichiara: “Facciamo pubblico comandamento che zingari ed accattoni non possano venire né sostare nel dominio”.
Col tempo si passa da misure volte all’esclusione a una politica di reclusione. Gli zingari possono essere utili, quindi, è diseconomico metterli al bando, perché ciò significa privarsi di braccia abili al lavoro. La negazione degli zingari si trasforma, così, in repressione autoritaria e spesso violenta. Gli zingari vengono imprigionati e costretti ai lavori forzati. In Romania vengono ridotti in schiavitù, durata oltre un secolo. (Delle Donne M., Cuore di zingara, 2014). |
Il rifiuto degli zingari
Strategie ideologiche e pseudo scientifiche dello stigma
I Rom, come gli Ebrei, non possono essere riconosciuti attraverso le origini e i miti ancestrali degli Stati europei. I miti delle Valchirie, dei Nibelunghi, di Odino, degli eroi della Rivoluzione Francese, degli eroi germanici, non possono essere da loro condivisi, perciò sono gruppi alieni, per questo esclusi dal concetto di patria e dall’appartenenza di suolo e di sangue. L’intento di raggiungere la supremazia in campo economico, politico, territoriale, nella compagine europea, pone le nazioni europee in una competizione feroce. |
Il rifiuto delle popolazioni autoctone, nei confronti dei Rom, si estende a tutti i paesi europei, dove sono allontanati, emarginati, criminalizzati. La situazione si aggrava con la formazione degli Stati Nazionali, basati sul concetto di patria, su un’identità originaria di metafisica appartenenza.
La difesa della razza Deutsche deutsche über alles
Si distingue soprattutto la Germania, tesa a raggiungere l’obiettivo Deutsche deutsche über alles. Diventa, per questo, fondamentale inculcare nel popolo tedesco l’idea sacra di Patria comune, con cui identificarsi e per cui combattere.
Le guerre sono lo strumento per raggiungere la supremazia in tutti i campi.
A partire dalla metà dell’Ottocento si sviluppano le teorie cosiddette “scientifiche” del positivismo. Si inizia a costruire l’identità nazionale, in cui interviene il concetto di razza, rafforzato dal mito eroico delle origini.
Sono le scienze sociali e l’antropologia fisica a determinare i parametri delle razze, in un ordine e in una gerarchia superiore-inferiore-degenerato. I cosiddetti scienziati positivisti, tra cui Cesare Lombroso, professore di Antropologia criminale, determinano anche i tratti somatici delle razze, su una presunta scientificità biologica. “Gli zingari”, afferma Lombroso “sono una intera razza di delinquenti …Essi infatti assassinano facilmente a scopo di lucro, si sospettarono anni orsono di cannibalismo”. Questo giudizio viene fatto proprio da Ottolenghi che nel 1932 scrive nel Trattato di Polizia Scientifica” … sono tutt’uno con la delinquenza quei vagabondi tipici etnici detti zingari… Troppo noti per trattenercisi, rappresentano una delinquenza professionale a base di tradizioni familiari, sono beduini dell’Europa centrale e Meridionale, che vivono facendo i saltimbanchi, predicando la ventura, ma realmente scroccando la buona fede con mille arti, compiendo reati anche gravi, rapinando bambini, incoraggiando reati di sangue…” |
Lombroso – Tratti somatici
di una razza criminale
Dalla razza allo sterminio.
In Europa contro i diversi, viene diffusa una propaganda ad hoc con la costruzione di stereotipi nei quali il diverso è un popolo maligno, come gli ebrei, o l’inferiore, come lo zingaro.
Lo zingaro appartiene a una razza contaminante, la peste che inquina da eliminare, da annientare.
Per quanto riguarda gli ebrei, vengono costruiti stereotipi in cui l’Altro è il male, appartenente ad una razza forte: la razza ebraica, in grado di distruggere la razza ariana, il bene, gli autentici germanici, per questo, razza da eliminare; leggi Olocausto.
Guarda e non dimenticare.
Per quanto riguarda i Rom, lo sterminio (Porrajmos nella lingua dei Rom) inizia braccandoli e uccidendoli sul posto del loro transito, oppure trasferendoli in massa negli Zigeuner Lager di Auschwitz Birkenau, dove in una sola notte, il 2 agosto 1944 furono uccisi nei forni duemila novecento novantasette rom, come testimonia l’ebreo Terracina internato ad Auschwitz, separato dagli Zigeuner Lager da un filo spinato.
Il resto è storia, storia di uno, di più etnocidi
Dopo la Seconda guerra mondiale c’è stato il riconoscimento dello sterminio (olocausto) del popolo ebraico e la loro riabilitazione; i Rom hanno dovuto aspettare circa settanta anni perché a Berlino, nel 2012, si erigesse una stele in memoria dello sterminio dei Rom.
P.S.- Questo articolo è il primo di un lavoro della Prof. Marcella Delle Donne, che ha come titolo provvisorio: “ROM: DAL PORRAJMOS A MAFIA CAPITALE”
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IL POPOLO ROM NON ESISTE
Dalla razza alla cultura: il razzismo differenzialista
Venerdì 19 gennaio 2018 di Marcella Delle Donne
Questo è il secondo capitolo del lavoro “ROM”: DAL PORRAJMOS A MAFIA CAPITALE”.
Dalla razza alla cultura
Ci sono voluti gli orrori del sistema nazista per mettere l’Europa e l’Occidente di fronte alla contraddizione tra gli astratti principi di uguaglianza e libertà, di cui sono portatori e la pratica della disuguaglianza, legittimata attraverso teorizzazioni razziali pseudo-scientifiche. Sono stati necessari più genocidi perché le dottrine sulla razza apparissero per quello che sono:
Una concezione (ideologica) che si discosta da una base scientifica e/o oggettiva di valutazione della razza e delle presunte ineguaglianze dei gruppi umani, una teoria che mette insieme, in un amalgama indistinto, fattori etnici, linguistici, religiosi e razziali di alcuni gruppi, decretandone l’inferiorità per principio assoluto, come sancisce d’autorità la superiorità di una sola razza (Comas J., The Race Question in Modern Science, 1956) |
Arte preistorica rupestre
Rispetto alle teorie sulla razza, le attuali scoperte della genetica mostrano una sostanziale identità originaria. Tra gruppi umani apparentemente tanto diversi, non ci sono differenze genetiche significative. Il genetista Luigi Cavalli Sforza, attraverso lo studio dei dati biologici delle popolazioni dei vari continenti, comparati con i dati forniti dagli antropologi e dai linguisti, ha dimostrato che tutte le cosiddette “razze”, o più precisamente, tutti i gruppi etnici attualmente esistenti sulla terra discendono dallo stesso progenitore, l’Homo Sapiens, comparso 100.000 anni fa nel continente africano. |
Attività Attività degli aborigeni li
Da lì, per successive migrazioni, gli uomini si sono distribuiti nelle diverse parti della terra, dove fattori ambientali hanno determinato quelle differenze che appaiono così profonde da avvalorare l’ipotesi di diversità genetiche tra i gruppi; tali differenze, legate al colore della pelle, alla forma degli occhi, dei capelli, e ad altri aspetti secondari, sono soltanto superficiali. Il tempo che ci separa dai nostri comuni progenitori è troppo breve, in termini di evoluzione biologica, per consentire significative mutazioni di ordine genetico (Cavalli Sforza L.F., Chi siamo. Storia della diversità umana, 1993).
È importante a questo punto soffermarci sul significato di etnico e di cultura. Il concetto di etnico si è modificato con il tempo, l’idea di razza si è affievolita, lasciando il posto a quella di cultura.
Dal punto di vista etnologico, la conoscenza dei modi di vita delle popolazioni “selvagge” ha posto gli studiosi europei di fronte alla complessità culturale dei gruppi che andavano classificando. L’osservazione ha messo in luce una correlazione necessaria tra gruppi umani e cultura. I viaggiatori e gli etnologi che si sono trovati a descrivere il sistema di vita (abitazione, vestiario, alimentazione, utensili e tecniche di lavoro, riti, cerimonie, costumi matrimoniali, credenze religiose, ecc.) dei “primitivi”, si sono resi conto che nessuna popo |
popolazione vive mai allo “stato di natura”. Ciò che contraddistingue biologicamente la specie umana è proprio la capacità di creare la cultura (Magli I., Voce Cultura in Enciclopedia di Filosofia, 1981) anche se viene tramandata socialmente e non per mezzo di geni (Tax S., The Evolution of Man-Mind, Culture e Society, 1960). Rispetto agli organismi vegetali e animali, i gruppi umani sono contraddistinti per natura dalla cultura, in quanto la cultura è il modo materiale dell’essere e dell’esistere dell’uomo nel gruppo (Taylor E.B., Primitive Culture, 1971). In tal senso si esprime Lèvi Strauss nella celebre conferenza pronunciata all’Onu nel 1971:
“Sono i sistemi culturali che gli uomini adottano qui e là, i loro modi di vivere tradizionali ancora vivi nel presente, che determinano in larghissima misura il ritmo delle loro evoluzione biologica e il suo orientamento. Lontano dall’errare nel chiederci se la cultura è o no una dimensione della razza, scopriamo che la razza, o quello che noi intendiamo generalmente con questo termine, è una dimensione, tra le altre, della cultura”. (Lèvi Strauss C., Lo sguardo da lontano. Antropologia, cultura, scienza a raffronto, 1984). Da questo punto di vista, qualsiasi paragone tra le culture, riferito a giudizi di valore o condotto attraverso categorie estrapolate da una specifica cultura e considerate universali, è privo di senso, e/o rinvia a un atteggiamento di ingiustificata dominanza di un gruppo sull’altro. |
Claude Levi-Strauss
Rom, uno sterminio dimenticato
Con l’approccio culturalista, si riabilitano gli ebrei come membri della società civile e si giudica il genocidio, nella vulgata e nelle istituzioni internazionali, come la tragedia relativa agli Ebrei, a cominciare dal termine con cui si identifica: Shoah (ebrei vittime sacrificali), o Olocausto (Sterminio degli Ebrei).
Il clan familiare è il cardine su cu si regge il sistema sociale romnì
Del genocidio dei Rom non si ha traccia, non si ha memoria. Come ha evidenziato Luca Bravi (2002, Altre tracce sul sentiero per Auschwitz) “le voci del campo zingari del lager di Birkenau scomparvero nella notte della sua liquidazione e sul genocidio degli zingari cadde l’imbarazzante silenzio che si è conservato per decenni fino ad oggi”.
La cultura come barriera allo sviluppo e allo scambio
La presa di coscienza delle conseguenze delle teorie sulla razza, e le scoperte scientifiche sulla comune origine dovrebbero aver vanificato le teorie razziali, ma, come mette in evidenza Michel Wieviorka, (Lo spazio del razzismo, 1993), il concetto di razza, antico di secoli, è stato destituito di fondamento scientifico, mentre il termine razzismo (nel quale viene assunto l’altro, quello di razza), apparso nell’ultimo secolo, è ben vivo. La questione si sposta semplicemente dal piano biologico a quello culturale, dal piano razziale a quello etnico, ponendo le basi del razzismo differenzialista (Le differenze tra culture sono intese come barriere che impediscono l’integrazione e lo scambio tra il gruppo del NOI; Maggioranza e gli ALTRI; Minoranze).
Il culturalismo di Lèvi Strauss e di altri studiosi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, caratterizzato dall’impegno umanistico di garantire l’unicità come la dimensione metastorica di ogni cultura, è stato in seguito strumentalizzato. Hanno preso il sopravvento le interpretazioni volte a usare la diversità culturale come barriera insuperabile, metafisica, rispetto alla validità di teorie sull’interscambio culturale (Wallerstein L., Balibar E., Razza, nazione, classe, 1991), senza tener conto che la cultura di ogni gruppo è una categoria dinamica, viva, che si evolve e non fissata una volta per tutte, ab aeterno, come appare nel dibattito differenzialista in merito alla cultura e all’etnicità. L’impostazione differenzialista ha condotto alla riaffermazione e alla difesa di irriducibili differenze tra culture ed etnie, ma ciò è discutibile tanto sul piano conoscitivo, quanto su quello morale. |
La dichiarazione del Sindaco di Varese sul rischio di estinzione della razza bianca, per l’invasione di altre razze, di cui sono portatori gli immigrati, ha destato sollevazioni generali di indignazione. L’intervento di Matteo Salvini, segretario della Lega, ha riportato il discorso sui binari delle interpretazioni maggiormente diffuse, le quali fanno della cultura il cavallo di battaglia delle teorie sul razzismo differenzialista: “Sono a rischio la nostra cultura, la nostra società, le nostre tradizioni, e il nostro modo di vivere. È in corso un’invasione, il colore della pelle non c’entra” (la Repubblica 16/1/2018) |
Nella prospettiva differenzialista, ogni tentativo di apertura del gruppo alla diversità e al cambiamento, per integrazione di elementi di culture altre, è interpretato come un pericolo per l’integrità e quindi per la sopravvivenza del gruppo dominante. Per fare un esempio tratto dall’attualità riportiamo il grido d’allarme sulla “razza bianca a rischio” di cui si è fatto portavoce il Sindaco di Varese, Attilio Fontana, in una trasmissione televisiva (14 gennaio 2018), e la rettifica fatta dallo stesso Salvini, segretario della Lega. |
Stigmatizzazione dei Rom: dalla teoria alla pratica
Al di là del secondo conflitto, nel 1946 le autorità tedesche dichiaravano ancora che “per quanto riguarda gli zingari, si richiede l’adozione di provvedimenti speciali essendo noto, sulla base della passata esperienza, che il tasso di criminalità di questa popolazione è estremamente elevato”. Nel 1956 la Suprema Corte della Repubblica Federale ha stabilito che il comportamento asociale di Rom e Sinti aveva determinato la promulgazione di leggi intese a garantire la sicurezza, già prima del periodo nazista.
Mentre ai Rom viene negato lo status di vittime dello sterminio, i “medici”, che li hanno utilizzati come cavie per esperimenti, continuano ad agire indisturbati anche nel dopoguerra, anzi, si accreditano nel mondo accademico e politico come esperti di zingari (Bontempelli S., L’invenzione degli zingari, 2005).
Dopo il ventennio fascista e il tragico epilogo della dittatura nazista, i Rom scompaiono per anni dai libri di storia, mimetizzati fra le popolazioni maggioritarie. Ci sono rom partigiani, rom artisti e rom artigiani, ma preferiscono, comprensibilmente, essere individuati solo come partigiani, artisti o artigiani, e non sottolineare il loro essere rom.
Nessuno di loro è presente al processo di Norimberga, dopo l’internamento e lo sterminio i Rom ritornano invisibili, rimangono in silenzio, si nascondono in mezzo alle popolazioni maggioritarie con la tecnica che Piasere chiama di dispersione “a polvere”. Le politiche repressive e discriminatorie, infatti, non sono morte con il Porrajmos (Piasere L., Un mondo di mondi, 1999).
Se nel 1933 gli zingari furono vittime delle leggi sulla sterilizzazione, ancora nel 1991 in Cecoslovacchia moltissime donne non sono state sottoposte a sterilizzazione coatta, e i bambini sono spesso allontanati dalle loro famiglie (Bravi L., Rom e non zingari, CISU, Roma 2007).
La Svizzera arriva a sottrarre i bambini alle famiglie per sottoporli a “misure educative sistematiche e coerenti […] perché il vagabondaggio andava estirpato, piantando i bambini nella terra buona” (Mehr M., intervista rilasciata a Petruzzelli P., in Non chiamarmi zingaro, 2008). Ancora nel 2005, sessant’anni dopo l’apertura dei cancelli di Auschwitz, l’assemblea generale dell’ONU approva una risoluzione che proclama il 27 gennaio giorno dedicato alla commemorazione dell’Olocausto (ovvero sterminio degli Ebrei). La Francia di Sarkozy caccia dal territorio francese comunità rom, avvalendosi della Direttiva Europea del 2006 che recita “I cittadini dell’Unione beneficiano del diritto di soggiorno finché non diventano un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale”. Naturalmente sono i governi nazionali a stabilire quando l’”onere” diventa eccessivo. |
Con lo stesso criterio, all’avvicinarsi del Giubileo 2000, a Roma furono prelevate dai campi 67 persone, tra loro bambini, donne incinte, anziani e malati. In dodici ore furono portati all’aeroporto e rispediti a Sarajevo, nonostante la maggior parte di loro fosse fuggita dalla guerra e i bambini fossero nati in Italia.
Le famiglie espulse vennero rintracciate in seguito dal fotografo Stefano Montesi a Llizda, un sobborgo di Sarajevo: “vivevano in case diroccate, intorno c’erano cartelli con scritto “Attenti alle mine” (Vassallo F., Discriminazione di gruppo ed odio razziale, 2010). Nel 1999 è passata la legge che riconosce e protegge le minoranze linguistiche presenti in Italia (art. 6 della Costituzione Italiana). La legge è passata quando è stata stralciata la minoranza rom, benché sia un gruppo etnico che parla una lingua con la quale comunicano i rom, sparsi nei cinque continenti. |
L’associazione Aizo, ogni anno, tiene un convegno all’interno dei campi rom, nel quale intervengono esperti, amministratori e gli stessi rom. Ad uno dei convegni, in cui era stato invitato un rappresentante del Governo, un rom interviene chiedendogli: “Cosa fa lo Stato italiano per il popolo rom?”. Risposta: ”Per lo Stato italiano il popolo rom non esiste”. |
I Rom in Europa
Oggi la popolazione Rom in Europa è composta tra i 12 2 i 15 milioni, di cui 9-10 milioni nell’Unione Europea (dati Consiglio d’Europa). Lo scarto di tre milioni, nel caso dell’intera Europa, e di un milione all’interno dell’Unione mostra la vaga conoscenza del Governo e del Parlamento dell’Unione Europea nei confronti dei rom.
Nazione | Stima popolazione RSC | Percentuale sulla popolazione totale |
Romania | 2000000 | 9,00% |
Bulgaria | 750000 | 9,30% |
Spagna | 700000 | 1,70% |
Ungheria | 600000 | 6,00% |
Slovacchia | 500000 | 9,20% |
Russia | 450000 | 0,40% |
Serbia-Montenegro | 400000 | 3,80% |
Francia | 350000 | 0,50% |
Repubblica Ceca | 250000 | 2,60% |
Macedonia | 230000 | 11,50% |
Grecia | 190000 | 1,80% |
Germania | 150000 | 0,10% |
Italia | 140000 | 0,20% |
Come si evince dalla tabella si tratta della più numerosa minoranza che vive in Europa, all’interno dei diversi paesi europei. È singolare come, nei confronti di alcuni dei paesi europei, i Rom siano una maggioranza. Sono quasi il doppio degli Austriaci (8.747.000); più del doppio dei Danesi (5.731.000); più dei Greci, degli Svedesi, dei Portoghesi, eppure vengono disconosciuti.
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ROM: IL CUORE È UNO ZINGARO
Dagli stereotipi alla vita vissuta. Giovedì 1 gennaio 2018 di Marcella Delle Donne Questo è il terzo capitolo del lavoro “ROM: DAL PORRAJMOS A MAFIA CAPITALE”. Costruzione degli stereotipi culturali Le teorie della razza prendono forma nella categoria del gruppo di appartenenza determinato, sul piano biologico, dallo ius sanguinis, concezione che è stata destituita di fondamenti validi dalle scoperte scientifiche dei biologi e dalle ricerche degli antropologi. L’idea di gruppo di appartenenza nazionale si è avvalsa delle categorie di popolo, coscienza nazionale, identità collettiva. Tali categorie vengono costruite artificialmente esaltando alcuni elementi originari mitizzati o totalmente costruiti dalla storiografia. |
IL CUORE È UNO ZINGARO
Per dar conto del significato dei presupposti su cui si fonda, nella coscienza collettiva, l’idea di gruppo di appartenenza, più che a categorie come popolo, nazione, identità nazionale, la cui natura ideologica non consente, tra l’altro, un uso euristicamente fecondo di esse, faremo riferimento alla coppia concettuale we group – out group, nata in concomitanza con la formazione della coscienza nazionale. We group e out group esprimono sistemi identitari separati e contrapposti sulla base del potenziale di aggressività strutturale al sistema individuo (Freud) e al sistema gruppo (Spencer), da cui scaturiscono atteggiamenti ostili o sfavorevoli verso lo out group. |
Il sistema culturale del we group acquista, in tal modo, una pregnanza cognitiva e una valenza emotiva fortissima, per ogni membro che in esso conosce e si riconosce. Ai componenti dei gruppi interni al sistema del we group, i membri di ogni altro sistema culturale-identitario appaiono come esterni, come “Altro”, come diversità, come out group.
L’immagine, l’idea che il we group (il sistema dell’identità)si fa dell’’out group (il sistema dell’alterità), viene rielaborata in riferimento alla percezione del sé, come universo di valori positivi, per cui l’Altro (out group), nella sua diversità, sarà definito attraverso giudizi che nascono, non dalla conoscenza di ciò che l’Altro è, come sistema identitario autonomo, ma sulla base di ciò che non è, in rapporto al termine di paragone rappresentato dal sistema di valori del we group (Whyte, Street Corner Society, 1943). In questa prospettiva, i sistemi di credenze riguardo al gruppo esterno, nei quali vengono elaborate generalizzazioni non soggette a verifica (i pregiudizi), prendono la forma di modelli, cioè di stereotipi. (vedi le teorie sul razzismo differenzialista). Gli stereotipi possono essere negativi o positivi a seconda dell’interesse che il we group hadi interagire o meno con l’out group. |
Whyte, Street Corner
Society, 1943
I pregiudizi variano dal favorevole allo sfavorevole a seconda dell’atteggiamento e dal tipo di rapporto che il we group vuole istaurare con l’out group in questione. In altri termini non si presenta un atteggiamento di aggressività o di ostilità e lo stereotipo dell’Altro rimane limitatamente positivo, quando i membri dell’out group possono essere collegati, come identità, a un contesto che offre garanzie di autonomia sul piano economico, politico, sociale, culturale; oppure quando l’out group, fuori dal proprio contesto reale, viene idealizzato per degli aspetti che appaiono desiderabili al we group. Per esempio, in Sudafrica, in tempi di apartheid, i giapponesi con cui conveniva interagire, vennero definiti con una legge apposita “bianchi onorari”.
Zingaro: ambiguità di uno stereotipo
’Che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va? Catene non ha, il cuore è uno zingaro e va-a-a-a…’. ’Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che destino avrò…’.
Così recitano i ritornelli di due note canzoni degli
anni sessanta, veicolati attraverso i media, nella forma suggestiva e
accattivante della canzone popolare.
Ecco due esempi dell’ambiguità degli stereotipi. In questo caso si tratta dello stereotipo dello zingaro. Simbolo della libertà, nella prima canzone, lo zingaro è immaginato libero dalle catene del quotidiano, dalle necessità istituzionali. Libero dalle catene del lavoro, dalle catene di un tempo programmato, ma non da noi, libero dalle catene delle istituzioni, dei modi di vita e delle consuetudini obbliganti, libero dalle catene della nostra condizione di sedentarizzati in uno spazio sociale che ci controlla, ci reprime, ci opprime.
Figura mitica, lo zingaro, “figlio del vento”, va dove lo porta la sua immaginazione, vagabondo sotto le stelle… Ma c’è di più, la similitudine del cuore con lo zingaro conferisce a quest’ultimo le caratteristiche del primo. Lo zingaro risponde alle leggi del cuore, egli vive nel flusso dei sentimenti, nel palpitare delle emozioni, libero dalla razionalità mercantile che ci governa.
Avere capacità divinatorie conferisce all’essere umano virtù magiche e lo rende simile agli dei. È questa da sempre l’aspirazione degli uomini. ’Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che destino avrò…’.
In questo caso lo stereotipo è la donna zingara. In quanto donna essa è il simbolo del mistero della vita, ma come zingara ha poteri magici che la rendono capace di interpretare i segni di questo mistero e disvelare i disegni inscritti nel nostro futuro. Di solito lo stereotipo si presenta con una identità ambivalente, nel senso che incorpora caratteristiche ambigue che si prestano a interpretazioni in positivo o in negativo (e quindi a rappresentazioni sociali corrispondenti) che variano a seconda di ciò che si vuole l’Altro rappresenti. Rimanendo allo stereotipo dello zingaro, esso isola e |
Romnì che legge la mano
e incorpora, reinterpretate e idealizzate alcune caratteristiche del gruppo stereotipato, nelle quali vengono proiettate le nostre aspirazioni represse, la nostra immaginazione castrata.
Quando lo zingaro mitizzato perde i suoi connotati ideali e si fa soggetto reale, un soggetto che vive in mezzo a noi, allora nella rappresentazione sociale, che si fa senso comune, lo zingaro diventa un membro della vituperata categoria dei nomadi che vivono senza lavoro, senza dimora, e la cui filosofia di vita è il furto.
In tal senso ’’senza catene’ viene a significare ’senza radici, senza identità, senza il valore lavoro e quindi senza merito’. Lo zingaro è un essere asociale e infido, un nomade senza terra, un parassita, che vive di furti defraudando gli altri, i membri della società civile.
Lo stereotipo che se ne ricava è quello di un estraneo che appartiene ad un contesto percepito come pericoloso, a rischio. La sua è una condizione di subalternità e menomazione nei confronti della percezione che il we group ha di sé. Lo zingaro è Altro, senza status, senza identità, senza diritti, si pone al gradinopiù basso del più basso strato sociale della società autoctona.
La similitudine con il cuore simboleggia lo zingaro come soggetto irrazionale, pericoloso, incompatibile con l’ordine costituito.
Zingara chiromante
L’essere investito di poteri magici, divinatori, sotto sembianze femminili ne fa una figura dotata di forze oscure e minacciose. La zingara che predice il futuro riecheggia figure lontane, capaci di malefici, portatrici di sventura.
I Rom e la società italiana
Dagli anni sessanta ad oggi sono passati oltre cinquant’anni, periodo in cui lo stereotipo dello zingaro è andato accentuando le valenze negative, al punto che oggi sarebbero piuttosto improbabili canzoni di successo aventi come soggetto gli zingari in un’accezione positiva. Di fatto, dagli anni sessanta ad oggi la società italiana ha subito una trasformazione straordinaria, in una direzione che è andata via via esautorando ogni relazione funzionale con le popolazioni rom, aumentando le difficoltà di una interazione.
Fintanto che l’agricoltura e la campagna avevano un’organizzazione ancora in parte rurale, le popolazioni rom avevano la possibilità di svolgere un ruolo utile all’agricoltura, pur mantenendosi separate e auto-referenti rispetto alla società italiana.
L’attività di calderai e fabbri, il commercio dei cavalli, la produzione di vasellame di rame, l’artigianato del cuoio e dei vimini, le attività itineranti dei circhi e delle giostre, l’abilità di musicisti, erano funzionali per molti versi all’economia e alla società italiana.
In una società dove le università agrarie avevano ancora la loro importanza, era possibile accamparsi e usufruire delle risorse naturali della terra, senza troppi problemi. Fino a sessant’anni fa, in alcune aree rurali le condizioni di vita dei due gruppi, autoctoni e rom, a parte il nomadismo di questi ultimi, non si discostavano di molto. Entrambi legati ad un’economia della scarsità, ad una tecnologia rudimentale, dovevano provvedere alle attività quotidiane in modo simile, come andare alla fonte per attingere acqua, raccogliere la legna per accendere il fuoco, utilizzare gli spazi aperti per i loro bisogni quotidiani, illuminare le notti buie con le lampade ad acetilene, se non con i lumini ad olio.
Per quanto sempre visti con sospetto, per la loro diversità culturale, per il loro vagare, per la separatezza e chiusura rispetto a forme di integrazione, veniva mantenuto nei confronti dei rom un atteggiamento ambivalente di mitizzazione e di rifiuto, che prendeva forma nello stereotipo dello zingaro “figlio del vento” e dello zingaro “sradicato”, dotato di virtù magiche e portatore di malocchio.
Quando la tecnologia avanzata, la scolarizzazione, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, l’informatizzazione hanno permeato totalmente la società italiana e le sue forme organizzative, le funzioni svolte dagli zingari sono diventate obsolete, il gap tra i due modi di vita si è fatto abissale.
La rapidità con cui il cambiamento si è verificato, aggravata dalle forme di emarginazione e di isolamento, poste in atto nei confronti dei rom, non ha consentito ad essi di percepire quanto andava accadendo intorno a loro. Questa mancanza è stata accentuata da una organizzazione sociale legata a forme di vita arcaiche, da una cultura basata su credenze e rituali propri del gruppo e impermeabili verso l’interno e verso l’esterno.
Quella rom è una società dove ancora oggi si attua una trasmissione per contagio psicologico di valori umani e criteri di giudizio, dove il principale veicolo di comunicazione, di significati, di simboli, di definizione del tipo di interazione tra individui, in una parola il codice normativo, viene trasmesso per via orale.
Vorrei ricordare che i Rom comunicano attraverso una lingua straordinaria, il Romanè, che ha molti punti di contatto con il sanscrito e si tramanda da secoli per via orale. Questo loro modo di essere aumenta la difficoltà di comunicare con gli italiani: i gadjé (così definiti dai rom), per i qualigli zingari non solo parlano una lingua incomprensibile, ma sono degli analfabeti.
Nella società dei gadjé, dove saper leggere e scrivere, avere un alto grado d’istruzione e di professionalità sono, forse, le cose più importanti, è difficile sopravvivere per una popolazione che risulta essere costituita al 90% da analfabeti.
Tutto ciò ha impedito ai rom, non solo un adeguamento della loro organizzazione alle società in cui sono
Incapsulati, ma anche la presa di coscienza delle coordinate di senso e di scopo del loro esserci in mezzo a noi.
Senza rendersi conto di come e del perché, si sono trovati interdetti, in un mondo incomprensibile, impenetrabile, ostile, un mondo Altro dal punto di vista materiale e metafisico, un mondo che non li conosce, né li riconosce, un mondo dove non c’è memoria della loro presenza e della loro storia.
Condizioni di vita e politiche dei rom in Italia
Nel nostro Paese si sono registrate quattro ondate migratorie della popolazione rom:
- La prima storica, nel XV-XVI secolo.
- La seconda, dopo il secondo dopoguerra, 7.000 Rom dall’Europa Orientale.
- La terza, in seguito alle guerre balcaniche, 40.000 Rom dalla Ex-Jugoslavia.
- La quarta, si è registrata con l’entrata nell’Unione Europea di Romania e Bulgaria, dalle quali è pervenuto un numero consistente di rom, flusso in entrata ancora in atto, della cui presenza non si hanno stime attendibili.
Dei circa dieci milioni di rom, presenti nell’Unione Europea, in Italia la popolazione rom è compresa tra i 140.000 e i 150.000 abitanti, che corrisponde allo 0,2% della popolazione totale. L’associazione Opera Nomadi stima la presenza dei rom in Italia intorno alle 180.000 persone. 70.000 rom, circa il 50%, sono cittadini italiani (stima del Ministero del Lavoro 2010).
Non si hanno dati ufficiali sulla diffusione dei rom nelle regioni italiane. Nella tabella che segue, figurano i dati più aggiornati delle regioni con oltre 2.000 rom presenti sul territorio.
Presenza dei rom in alcune regioni italiane (stime) | |||
Emilia Romagna | 4000 | 4377487 0,09 | |
Lazio | 17000 | 5557276 0,3 | |
Lombardia | 13000 | 9794525 0,13 | |
Piemonte | 6000 – 6500 | 4374052 0,14 | |
Puglia | 2000 | 4050803 0,04 | |
Sicilia | 2700 | 4999932 0,05 | |
Veneto | 5600 | 4881756 0,11 |
Tabella Eu-inclusive, rapporto nazionale sull’inclusione sociale e lavorativa dei Rom, 2014 (Bormioli, Cataldo, Colombo)
Un’analisi delle condizioni di vita dei rom mostra come questa popolazione sia ai limiti della sopravvivenza.
Tra la popolazione rom, la presenza di minori al di sotto dei 16 anni rappresenta il 45%, tre volte superiore alla media nazionale (15%) della popolazione italiana della stessa età.
Va sottolineato come la scolarizzazione dei minori rom mostri una grave evasione scolastica. Il numero dei minori rom iscritti nelle scuole dell’obbligo non raggiunge le 12.000 unità (2013), a fronte del 45% di minori, su una popolazione di circa 180.000 rom. Ciò significa che la presenza nelle scuole dei minori rom è circa un quarto della popolazione in età scolare, percentuale che si aggrava poiché la popolazione rom è sottoposta a continui sgomberi da un campo all’altro, o viene trasferita ai centri di accoglienza, separando le famiglie, o semplicemente viene costretta a sgomberi senza soluzioni alternative.
La presenza di ultrasessantenni rom (0,30%) corrisponde a circa un decimo della media nazionale (25%). Ciò indica che le condizioni di vita sono così precarie da incidere in modo massiccio sulla durata della vita. (Fonte: Strategia nazionale UNAR).
Le famiglie rom composte da una o due persone rappresentano solo l’8% del totale, mentre la generalità dei casi, vede una presenza di famiglie composte da 5 o da 6 persone (31,1%), da 7 persone (11,3%),
da 8 persone (7,2%), o da 9 e oltre persone (18,7%).
Da un punto di vista della dislocazione dei rom sul territorio nazionale, è difficile quantificare, sia il numero dei campi abusivi, sia il numero delle presenze della popolazione rom in essi.
Le politiche locali italiane, rivolte alle popolazioni romanì, si sono basate sulla convinzione che i Rom siano nomadi, quindi inadatti a condurre una vita sedentaria, inadatti ad abitare all’interno di abitazioni convenzionali ed a svolgere comuni occupazioni. Questa convinzione, condivisa sia in Francia, che nel Regno Unito, ha determinato in Italia interventi pubblici per i Rom (quando ci sono stati), che hanno comportato la creazione dei “campi nomadi,” principale punto di riferimento per la “sistemazione” dei rom.
Campo nomadi
La convinzione di considerare i rom popolazione nomade, ha portato in Italia ad escludere i Rom, provenienti dalle guerre balcaniche negli anni ’90, da una sistemazione abitativa in appartamenti. Ci riferiamo alla decisione dell’allora Ministro degli Interni, Rosa Russo Jervolino, di non estendere l’applicabilità delle misure di protezione temporanea, previste dal decreto del Presidente del Consiglio, ai profughi, prevalentemente rom, che giungevano sulle coste italiane alla fine del bombardamento NATO. (Sigona N., Identità contese, CISU 2004). Così, i profughi rom dalla ex-Jugoslavia sono finiti nei cosiddetti “campi nomadi”.
Una ricerca del 1998 ha contraddetto questa convinzione. La ricerca, condotta da Monica Rossi su un centinaio di rom bosniaci nel campo romano del Casilino 700, registrava come l’85,7% di loro abitasse, prima di sfollare, in normalissime case in muratura, poi distrutte nel conflitto. I capifamiglia intervistati lavoravano prima della guerra come artigiani, meccanici, carrozzieri, muratori, e operai (Rossi M., The city and the slum, 2010).
Campo nomadi fuori dal contesto urbano
Sulle condizioni di degrado in cu vivono i rom nel nostro paese ha alzato la voce il governo della Unione Europea.
In seguito ai ripetuti interventi per il cambiamento delle condizioni dei rom, rivolti allo Stato italiano dall’Unione Europea, il Governo del nostro paese è stato indotto a elaborare una Strategia Nazionale (2012), con lo scopo di affrontare gli aspetti più gravi di discriminazione della popolazione rom: casa, lavoro, salute, istruzione. A tutt’oggi (2018), non si registrano interventi applicativi che rispondano ai contenuti della Strategia Nazionale.
Rom: una etnia residuale
La popolazione rom, con il ridursi via via delle possibilità di esercitare le attività tradizionali, coll’accrescersi pressoché totale dei divieti di sostare, è stata sospinta nelle periferie delle grandi città, segregata in spazi residuali separati e inaccessibili, fuori dalla portata e dalla vista dei cittadini, i famigerati e vituperati “campi nomadi”, in parte abusivi, per la necessità di accamparsi, privi di servizi.
Circo rom – illustrazione storica
I “campi nomadi,” attrezzati, tollerati e abusivi, ospitano indistintamente i Rom ammassati in fatiscenti roulotte, troppo piccole per contenere famiglie molto numerose. Non è raro che i bambini muoiano bruciati, poiché la roulotte prende fuoco, o perché assiderati per il troppo freddo.
Dal punto di vista della percezione della società autoctona (we group), i Rom, esautorati nell’esercizio delle attività lavorative proprie, espulsi dagli spazi in cui sostare, dai processi di urbanizzazione e trasformazione del territorio, estraniati dal processo di cambiamento, sono considerati dalla società in cui sono inseriti un elemento residuale, anomalo, disfunzionale, un peso del quale bisogna sbarazzarsi.
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