RATZINGER E IL SUO NEMICO
DI GILBERTO SQUIZZATO
Ci aspettano giorni e settimane di celebrazioni di Benedetto XVI che in gran parte dei casi non oseranno addentrarsi con occhio critico sul senso e sull’esito prima della sua presenza ai vertici dell’ex Santo Uffizio (dal 1981 Congregazione per la Dottrina della Fede) e poi del suo papato bruscamente interrotto dalle dimissioni. Io credo invece che onorando una persona così eminente al termine della sua vita si debba evitare ogni enfasi celebrativa e si possa valutare lucidamente e serenamente il suo pensiero filosofico e teologico e le conseguenze che esso ha prodotto, per lunghi decenni, sia dentro la Chiesa cattolica sia nei rapporti fra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Dico subito che non mi interessa qui intervenire su certi suoi silenzi a proposito dei delitti di pedofilia (non solo peccati, perdonabili in confessionale ma non nei tribunali) di cui fu a conoscenza già quando era vescovo di Monaco di Baviera (silenzi clericalmente giustificati col dovere di sopire gli scandali per non ferire le anime dei credenti più fragili). Neanche voglio pronunciarmi sui motivi autentici delle sue dimissioni, che non pochi hanno interpretato come una resa a fosche faide e inconfessabili segreti interni alla Curia Vaticana che avrebbero stremato il vecchio Benedetto XVI. Altri cercheranno di sapere meglio e di più. A me interessa piuttosto tentare di cogliere il nucleo portante del suo pensiero, che mi pare essere consistito in una strenua, indefessa, ossessiva lotta contro quello che riteneva il maligno nemico avvelenatore della società contemporanea: il relativismo, dilagato a suo avviso dall’inizio del XIX secolo e pericolosamente disseminato dalla cultura filosofica moderna. Cos’è, in breve, il relativismo, che Ratzinger consideró come il diabolico nemico con cui non poteva venire a patti? E’ quel metodo di pensiero, e quell’orizzonte culturale, che invita a considerare come ineliminabili e insuperabili i limiti della conoscenza e dei linguaggi umani, che proprio per questo sono da considerare non assoluti ma “relativi”, e perció sempre parziali, fallibili, e dunque perfettibili. Questo relativismo (culturale, scientifico, etico e perció anche religioso) fu per Ratzinger “il male” della modernità contro il quale rivendicò l’urgenza di una Verità assoluta e di parole definitive. E questa Verità- pur auspicando un utile dialogo con le scienze- non poteva consistere per lui altro che nell’Annuncio cristiano. Quella Verità assoluta a suo avviso – lo disse espressamente nel discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006- aveva trovato la sua più perfetta definizione ed espressione nei concetti e nelle parole della teologia cristiana dei primi secoli (approssimativamente fra il terzo e quinto secolo) quando la filosofia greca (in sostanza, il neoplatonismo) di sposò con la narrazione evangelica. (Val la pena di ricordare, per la precisione storica, che quella fu l’epoca in cui la dottrina cristiana diventava religione di stato tutelata e imposta dall’Imperatore.) Il papa che molti oggi molti ricordano per la sua sorridente mitezza fu in realtà il teologo portatore di un pensiero rigido e inossidabile, intransigente nel rivendicare per la Chiesa il monopolio della salvezza e il possesso di TUTTA la verità e indisponibile a riconoscere che anche le parole di quelle formule dottrinali, espresse in un certo tempo e dentro gli schemi filosofici allora dominanti, non potevano che essere a loro modo anche “relative”, parziali, limitate, adatte ai loro tempi ma forse non in tutto e per tutto vincolanti per i millenni successivi, proprio perché formulate ed espresse da uomini di una certa epoca. In questo modo Ratzinger svalutò, anzi condannò, ogni altro tentativo di raccontare il Vangelo con paradigmi culturali e concetti diversi da quelli della filosofia greca, imponendo invece dottrine e formule teologiche (quelle del Credo) che perfino gli stessi Apostoli (ebrei del I secolo lontanissimi da Atene) avrebbero faticato a comprendere. Allo stesso modo la cristologia di Benedetto XVI afferma che il “vero Cristo” non è quello di cui gli studiosi cercano di delineare almeno i tratti essenziali con una rigorosa e coscienziosa ricerca storica, ma solo quello della Tradizione ecclesiastica, cioè quello insegnato dal magistero ecclesiastico, dimenticando che la Tradizione giunta a noi dall’antichità è quella delle chiese che sostenute dagli imperatori (Costantino, Teodosio e successivi) sbaragliarono dichiarandole eretiche tutte le altre che pensavano e celebravano Joshua il crocefisso in modo anche solo leggermente diverso. Una posizione inscalfibile, quella di Ratzinger, che lo ispirò quando guidò il Tribunale della Corretta Dottrina delle fede e più tardi quando sedette sul trono di Pietro e che da quelle posizioni ai vertici della Chiesa gli fu facile giustificare attribuendola non ai propri meriti intellettuali ma alla grazia divina, anzi allo stesso Spirito Santo. Non è da stupirsi se un papa integralista e tutto d’un pezzo come Wojtyla scelse proprio lui per guidare l’ex Santo Uffizio. Eppure era sembrato, all’inizio della sua carriera di teologo, negli anni ’60, che Ratzinger fosse interessato all’esplorazione di nuovi orizzonti ben diversi da quelli in cui ben presto si rinchiuse, spaventato dal dilagare nel ‘68 delle rivolte giovanili, del pensiero neomarxista, della rivoluzione sessuale e dei costumi che cambiarono pensiero e vita della società contemporanea. Nella prestigiosa facoltà di Tubinga aveva lavorato accanto a un gigante del pensiero teologico “aperto” come Hans Kung: proprio lì peró le loro strade ben presto di divaricarono, portando Ratzinger nella Curia vaticana e poi al papato e Kung a scontare una marginalizzazione, da parte dei vertici ecclesiastici, sempre più dura ed opprimente, ma anche a ricevere il consenso di folle sempre più ampie di credenti e laici in ricerca e in dialogo fra loro. A Wojtyla, già convinto di dover ripristinare almeno in Europa e in Occidente la “cristianità”, cioè un modello di società esplicitamente ispirato alla dottrina e ai valori cristiani, Ratzinger offrì l’armamentario della sua riflessione teologica e il papa polacco seppe trarne efficace alimento le sua azione politica, oltre che per un ferreo controllo dell’istituzione ecclesiastica. Su queste premesse è facile comprendere che Wojtyla prima e poi Ratzinger non potessero che mettere fuori discussione ogni eventuale revisione della dottrina in fatto di sacerdozio, di celibato dei preti, di esclusione della donna dalla presidenza dell’Eucarestia. La loro è rimasta una Chiesa che riconosce e attribuisce solo al prete maschio la gestione del “potere sacro” e crede di accontentare le donne promuovendole a ruoli sempre subalterni a quelli del clero maschile. E dunque obbedienza assoluta dentro l’istituzione anche a costo di radiare dai seminari, espellere dalle comunità, sospendere a divinis teologi, laici e preti in dissenso da questa visione “assolutista” e autosufficiente della Chiesa cattolica depositaria dell’unica Verità, della sola corretta dottrina cristiana, dell’unica morale possibile e dell’unica bioetica di valore indiscutibilmente universale. Dobbiamo anche ricordare che senza l’approvazione di Wojtila confortato dal suo teologo di riferimento Ratzinger l’allora presidente della CEI cardinale Ruini non avrebbe sponsorizzato Berlusconi, paladino a parole dei valori “non negoziabili” della Chiesa Romana: e senza il placet vaticano il Cavaliere non avrebbe potuto sdoganare né la Lega xenofoba di Bossi né i neofascisti eredi di Almirante, e forse la storia italiana sarebbe andata per un’altra strada. E forse avrebbe percorso un altro itinerario anche la storia europea, che vide la furia anticomunista del papa polacco accelerare vertiginosamente il crollo dell’URSS che era destinata sì a implodere ma forse con un percorso più lento e meno turbolento non ci avrebbe regalato la tremenda esplosione dei nazionalismi ottocenteschi deflagrati nei Balcani e nel Caucaso, fino al risorgente imperialismo di Putin a sua volta riconvertito all’altare e fattosi paladino della religione cristiana contro l’Occidente inquinato e pervertito dai gay (Ratzinger per parte sua comparò le nozze gay all’Anticristo). Io credo che ad alimentare la determinazione del papa polacco ad accelerare la Storia a tutti costi provocando così il domino che partendo dalla sua Polonia coinvolse tutti paesi del patto di Varsavia ci sia stata proprio la teologia anti-relativista elaborata dal mitissimo Ratzinger e che l’impetuoso Wojtyla interpretatò come dovere storico di ripristinare la “cristianità” (concetto medievale già archiviato dal pensiero laico e pluralista moderno) da lui sentita come compito e destino dell’Europa. Divenuto papa, e angosciato di perdere, per così dire, la destra più reazionaria e anticonciliare della chiesa, Ratzinger giunse a riabilitare quattro vescovi lefebvriani (uno dei quali scandalosamente negatore della Shoà): quelli per intenderci della messa solo in latino che non sono neppur oggi disposti a sottomettersi alle prime aperture al mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II. (Per chi non lo sapesse, anche l’attuale il presidente della Camera, il leghista fontana, è un reazionario cattolico di destra che frequenta solo le celebrazioni in latino). Questa a mio parere l’eredità teologica fondamentale di Benedetto XVI: un’idea “assolutista” della dottrina cristiana come baluardo contro il nefasto “relativismo” moderno e la difesa a oltranza di una Chiesa rigidamente verticale, in cui un corpo separato, il clero esclusivamente maschile, gestisce il monopolio del potere sacro. Accompagnandolo rispettosamente nel momento del congedo, non mi unisco perciò al coro di chi ne ricorda emotivamente solo la mitezza e dimentica quanto il suo pensiero teologico abbia improntato i nostri tempi. Abbi pace Benedetto XVI.
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