“Un maestro di giornalismo”: ricordo di Giovanni Avena
giovanni ferrò 05/09/2021, 20:12
Il nome di Giovanni Avena forse non dirà molto a chi non ha avuto modo di entrare in contatto con lui direttamente: era un uomo molto discreto, amava stare un passo indietro, non desiderava palcoscenici o riflettori, cosa impensabile in quest’era ossessionata dalla visibilità a buon mercato che forniscono i social media. Però chi lo ha conosciuto, sa quanto sia stato importante nel guidare quel piccolo e influente naviglio corsaro dell’informazione religiosa che è l’agenzia Adista.
Personalmente, faccio fatica a dire a me stesso che Giovanni Avena non c’è più. Perché prenderne atto vuol dire riconoscere di aver perso non soltanto un vecchio amico, ma anche un maestro di giornalismo che è stato fondamentale per farmi diventare il poco che sono oggi professionalmente, ma anche il tutto su cui ho giocato una parte fondamentale della mia vita.
Quando l’ho incontrato per la prima volta era la tarda primavera del 1989, Roma splendeva come Torino (dove vivevo) neanche si sognava. E si trattava di decidere se accettare l’offerta di lavoro che Adista mi aveva fatto, accettando anche di ribaltare la mia vita e quella della mia futura moglie. Oppure se tornarmene alla mia tranquillità sabauda, a cercare qualcosa di più solido economicamente e più rassicurante dal punto di vista familiare, ma al tempo stesso rinunciare a fare il giornalista “in un certo modo”, forse anzi a fare il giornalista tout-court.
Adista all’epoca era una sorta di diffusissimo samizdat sul Vaticano e la Chiesa cattolica. Nata nel post-concilio per iniziativa di alcuni esponenti cattolici della Sinistra indipendente e del cosiddetto “dissenso” (comunità di base, preti operai, etc…), con il passare degli anni era diventata una fonte di informazione libera e affidabile per sapere tutto ciò che avveniva nel mondo cattolico italiano e internazionale e che la stampa rigidamente ufficiale della Chiesa nel tempo di papa Wojtyla non avrebbe permesso fosse pubblicato. Vescovi, preti e laici cattolici la leggevano, magari di nascosto e con un vago senso di peccaminosità, ma regolarmente e quasi con bramosia. La redazione era un continuo via vai di vaticanisti dei grandi giornali italiani e stranieri in cerca di informazioni, di un contatto, di una spiegazione o di un confronto riguardo all’interpretazione di fatti e voci che giungevano dall’interno delle Mura leonine. Frequentavano la sede di via degli Acciaioli non soltanto le “figure di riferimento” dell’agenzia (Adriano Ossicini, Raniero La Valle, Mario Gozzini, Giovanni Franzoni…) ma anche un gran numero di personalità del mondo cattolico democratico, allora in sofferenza per l’ondata di normalizzazione che attraversava la Chiesa italiana (Pietro Scoppola e Paolo Giuntella, tanto per fare solo due nomi tra i più noti).
Adista era un collettivo redazionale e, a parte il direttore Franco Leonori, non c’era una gerarchia formalizzata al suo interno. Giovanni Avena, in particolare, non amava i gradi ma era chiaro che, insieme ad Eletta Cucuzza, fosse il capo della redazione. Per me che arrivavo dall’esperienza dell’Azione cattolica, il primo incontro fu un po’ straniante. Però ci piacemmo a vicenda e, dopo averne parlato con la mia fidanzata, decisi di accettare l’offerta, trasferirmi a Roma e lavorare a tempo pieno in redazione.
Adista fu la scuola di giornalismo di cui avevo bisogno e Giovanni l’insegnante “severo ma giusto” che più o meno coscientemente cercavo. Lavoravamo tutti quanti dalla mattina alle 8 fino alla sera alle 8, sfornavamo notizie tutto il giorno picchiettando prima su vecchie macchine da scrivere, poi sugli ingombranti computer allora in circolazione, che oggi sarebbero ritenuti degli scassoni degni di un museo di storia della tecnologia. La liturgia quotidiana era sempre la stessa: ogni articolo che si terminava veniva stampato e portato a Giovanni che, dopo un po’, te lo riportava indietro con decine di correzioni a margine, interi paragrafi riscritti, tagli e aggiunte. Non c’era santo: il nuovo pezzo era molto ma molto meglio di quello originale. E spesso lui inseriva informazioni che tu – che pure sulla notizia ci avevi lavorato diligentemente per ore – neanche conoscevi. Quando chiedevi spiegazioni su questo o quel passaggio modificato, rispondeva con poche brusche parole, ma ti forniva sempre argomenti convincenti per cogliere il senso delle correzioni, e nuovi spunti per capire meglio il quadro complessivo o per approfondire la questione.
All’apparenza burbero, era in realtà un uomo di una generosità impressionante, che si prendeva cura delle persone che gli erano affidate, sia per ciò che riguardava il lavoro sia, in generale, nelle relazioni amicali. Sembrava un caporedattore dei telefilm americani: scorza coriacea e cuore grande. E la cosa stupefacente è che non era nato giornalista, anzi forse non lo è mai stato fino in fondo. Perché innanzitutto era un prete, anzi un “presbitero”, un “anziano”: con un tasso zero di clericalismo e un tasso ancora meno di zero di narcisismo.
Ad Adista ho lavorato per quattro anni e qualcosa. Ed è stato come completare un Phd di giornalismo di strada, quello che si fa con le suole delle scarpe per parlare con le persone, oppure attaccati al telefono per verificare le fonti, per scavare dietro l’apparenza delle versioni ufficiali. In quella redazione, che veniva tacciata di essere militante e partigiana, e da Giovanni Avena in particolare, ho imparato il gusto per l’esattezza, l’ossessione per la precisione, la devozione per la correttezza di una notizia, il rispetto quasi religioso per i fatti.
Non sempre siamo stati d’accordo nella lettura degli eventi che segnavano la Chiesa, talvolta la sua visione mi è sembrata segnata da un pessimismo che io interpretavo come legato anche alle vicende personali che lo avevano toccato. Ma ciononostante l’affetto, l’amicizia e la voglia di confrontarsi su ciò avveniva dentro e fuori il mondo ecclesiale non sono mai venuti meno. Negli ultimi anni – io a Milano e lui ormai in pensione pieno di acciacchi – le occasioni per sentirsi direttamente e fare quattro chiacchiere si erano diradate. Questa cosa – me ne accorgo ora – mi è pesata. E ora non c’è rimedio.
Però, Giovà, la prossima volta che ci vediamo, ci sediamo tranquilli a uno dei tavolini del bar di Alfredo, ci prendiamo uno dei suoi caffè speciali e ce la contiamo con tutta la calma dell’universo. Ok?
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