«Una politica lontana dalla gente è infedele»
Intervista a don Mimmo Battaglia
a cura di Emanuele Imperiali
Don Mimmo Battaglia, innanzitutto come si sente dopo essere stato contagiato dal Covid?
«Mi sento un po’ meglio, grazie».
Lei è sbarcato da pochi giorni a Napoli, città che condensa un concentrato di problemi ma anche di opportunità. Degrado sociale, periferie spesso non integrate nella città, difficoltà economica delle famiglie ingigantita dalla pandemia. Per contro sensibilità, generosità, voglia di riscatto. Come coniugare queste molteplici facce che fanno tornare alla mente Giano bifronte?
«Napoli più che un Giano Bifronte è la città dei mille colori. Con questo verso la descriveva Pino Daniele, che ho ascoltato durante gli anni della comunità insieme ad altre canzoni con Antonio, un giovane figlio di questa terra caduto nelle maglie della dipendenza. Napoli ha davvero mille colori, alcuni luminosi, altri più scuri. Alcune tinte hanno il sapore delle ferite, delle paure e dei dolori della sua gente, altre sono invece illuminate dall’immensa ricchezza umana di cui questo popolo è custode. Dal canto mio, come vescovo, sto muovendo questi miei primi passi in punta di piedi, chiedendo permesso, per questo non ho ricette preconfezionate per rischiarare le ombre ma sento invece la necessità di incamminarmi dietro le sue luci, lasciandomi anch’io illuminare dallo spirito partenopeo di solidarietà, di accoglienza, di creatività e audacia, di coraggio e resilienza. Vede, quando l’altra sera ho incontrato in galleria alcuni poveri, dimenticati da tutti, ho toccato le tinte fosche della sofferenza ma al contempo ho fatto esperienza della luce che brillava nei loro occhi grati, illuminando le mani dei volontari che con amore condividevano tempo e beni. Ecco, chiamato dal Signore a servire questa terra, desidero mettermi a servizio della sua luce, lasciandola crescere fino ad arginare ogni buio. E per far questo credo che il mio colore, quello che ricevo dal Signore e desidero condividere con tutta la città, credenti e non, debba essere quello della speranza».
Il segnale che lei ha dato al momento del suo insediamento, mettendo avanti a tutti nel Duomo quelli che di solito sono gli ultimi, è forte e oserei dire rivoluzionario. Cambia la grammatica di una società che privilegia sempre i potenti, i famosi, i poteri forti. Secondo lei è stato colto nel suo dirompente significato?
«Il Vangelo è dirompente e come vescovo desidero indicarlo ai miei compagni di cammino come bussola affidabile. Senza ricorrere all’alfabeto del potere ma declinando il linguaggio fragile della tenerezza. La fragilità nel Vangelo è sorgente di forza e contiene in sé il germe della risurrezione. La scelta di entrare in Cattedrale con delle persone rappresentative del dolore e delle ferite della città è stata per me un’esigenza di tenerezza. Un segno prima che per gli altri per me stesso. Affinché non dimentichi mai di appartenere ad una Chiesa chiamata ad essere discepola della fragilità. Nel mondo si dà attenzione ai potenti, a coloro che contano, la cui immagine e il cui ruolo è noto a tutti. Il Signore, invece, ci invita a dare attenzione a tutti ma con un ordine di precedenza chiaro, inequivocabile: partendo dagli ultimi. È nella capacità di essere attenti a loro che si gioca la nostra fedeltà al sogno di Dio e il nostro essere Chiesa del grembiule, comunità che annuncia una Parola capace di rivoluzionare la logica dell’uomo, sovvertendone i criteri e le priorità, ridisegnando i percorsi di vita in modo più umano. Vede, nella “Didascalia apostolorum” c’è scritto che il vescovo durante le celebrazioni deve assegnare i posti secondo un criterio preciso: se arriva una persona potente, con un posto d’onore nella società non deve fare favoritismi, ma se invece giunge un povero, soprattutto se straniero e anziano, il vescovo deve addirittura fermarsi e, a rischio di sedersi a terra, è chiamato a cedergli il suo posto. Ho voluto indicare questo. Affinché me lo possa ricordare ogni giorno del mio pellegrinare tra i vicoli e tra i chiaroscuri di questa città. E nello stesso tempo come pastore ho voluto condividere fin da subito con il popolo di Dio affidatomi, il sogno di una Chiesa povera e per i poveri, capace di parlare a tutti, proprio perché vicina a coloro a cui nessuno parla e di cui nessuno canta: gli ultimi».
Lei è un pastore figlio del Mezzogiorno, nasce in Calabria, svolge il suo ministero pastorale in una zona interna della Campania, ora la scelta del Pontefice è caduta su di lei per la capitale del Sud. Quali sono a suo parere le similitudini e le differenze tra queste facce meridionali?
«Il Sud è accarezzato dalla bellezza del sole, fecondato dall’incontro incantevole tra l’azzurro del mare e il verde delle colline, ma anche profondamente segnato dalla complessità e dalle contraddizioni di tante ferite. Tra la mia gente di Calabria, gli amici di Cerreto Sannita e i figli di Napoli vi sono sicuramente delle differenze di carattere, di tratto, di storia, ma ciò che accomuna il Mezzogiorno è di gran lunga superiore: penso alla capacità di resistere senza perdere mai la speranza, anche quando tutto sembra favorire il contrario; penso alla dote innata di accogliere l’altro con il sorriso prima ancora di chiedere chi sia e cosa voglia; penso all’audacia creativa dei sogni che riescono a seminare ricchezza d’animo e genialità per l’umanità intera, partendo dalle cose semplici, umili, piccole. Questo non significa affermare il fatto che ad accomunare le nostre terre e la nostra gente vi siano solo cose belle. Vi sono anche la disoccupazione, la povertà educativa, il radicamento delle mafie, piaghe che abbiamo in comune e che non rappresentano per nulla un “mezzo gaudio”. Guardando però ai tanti volti e alle tante storie incontrate in questi anni, dalla Calabria a Cerreto fino ad arrivare ai primi nomi, alle prime lacrime, ai primi sorrisi incontrati a Napoli ho potuto constatare un desiderio profondo di riscatto e la voglia di mettersi insieme per sconfiggere questi mali come comunità, come popolo, al di là di ogni individualismo infecondo. Vorrei mettermi, insieme a tutti i figli di Napoli, al servizio di questo processo di comunità, di questo desiderio di bene, di questa speranza laica e cristiana al contempo. Il Sud, la Campania come la Calabria, hanno bisogno di speranza, di riscatto. Senza retoriche. Senza ulteriori rimandi. Ne va di mezzo soprattutto il futuro delle nuove generazioni. Ed è infatti da loro e con loro che bisogna iniziare questo cammino di liberazione. Per questo, anche per la nostra metropoli, è necessario ed urgente dar vita ad un patto educativo forte, capace di rimettere al centro la sfida educativa, dando vita ad una cultura della rete, creando un sistema di comunità fondato sulla rescuola, comunità cristiane, istituzioni, terzo settore, il mondo delle associazioni e del volontariato, come anche tutte le realtà educative presenti sul nostro territorio, in una sorta di villaggio educativo globale. I bambini, i ragazzi, i giovani non sono il nostro futuro ma il nostro presente! Non vanno né illusi né delusi. Guai! Perciò il tempo della responsabilità costruttiva è ora. Serve ora un patto educativo capace di generare una cultura dell’inclusione affinché nessuno sia lasciato indietro, né oggi né mai. Partire dalle nuove generazioni significa anche promuovere una cultura del lavoro capace di coniugare sviluppo e giustizia sociale, togliendo terreno ad ogni forma di mentalità e azione mafiosa. Possiamo realizzare tutto questo solo insieme».
Il direttore del “Corriere del Mezzogiorno” ha scritto venerdì che con la sua lettera, indirizzata ai malati e pubblicata integralmente dal giornale, lei sta riaccendendo la scintilla della politica. Quella che quando eravamo giovani caratterizzava la sinistra culturale e che oggi forse solo la Chiesa di Francesco può interpretare, al di là della fede che ciascuno di noi professa. Quella che ha un orizzonte e che punta al bene comune. Si ritrova in questo volo pindarico?
«Anzitutto mi permetta di ringraziare il direttore d’Errico per aver letto, commentato e dato rilevanza al mio messaggio in occasione della Giornata mondiale del malato. La scintilla della politica si riaccende ogni qualvolta ci lasciamo interpellare dal volto dell’altro, dalla sua voce, dalle sue ferite, dal suo dolore. Ritrovando nel suo volto il nostro volto, nella sua voce la nostra voce, nelle sue ferite le nostre ferite, nel suo dolore il nostro dolore. Per risollevarci insieme, appoggiandoci l’uno all’altro, condividendo le ali della speranza e la bussola del desiderio. La politica è infatti desiderio di condivisione, innamoramento per la comune appartenenza allo stesso corpo piagato e luminoso, fraternità che nasce dal sapersi tutti figli di una comunità in cui nessuno può salvarsi da solo. Don Milani con i suoi ragazzi scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”. E l’avarizia porta alla morte sociale mentre l’amore generoso per il bene comune conduce alla fioritura della comunità. Credo che lavorare alla fioritura della nostra Napoli, del Mezzogiorno e di tutto il Paese sia ora più che mai un dovere per tutti, a cui nessuno può sottrarsi, qualsiasi sia la sua idea politica o il suo orientamento partitico. E credo che per farlo occorra ripartire, come ha affermato papa Francesco nel suo recente messaggio per la giornata della Pace, da una rinnovata cultura della cura. Prenderci cura gli uni degli altri. Riscoprirci tutti feriti e al contempo tutti samaritani. Tutti smarriti e tutti ritrovati dall’amore dell’altro. Per l’altro. Ecco cos’è la politica, lasciarsi interpellare dall’altro con amore. E proprio per questo non può ridursi a semplice gestione dell’esistente, ma è e deve diventare, progetto, tensione, sogno e profezia. La politica è chiamata a farsi prossima della storia delle persone, vicina al senso del vivere, per essere capace di dare senso alla vita. Tutto questo significa spostare l’attenzione dalla sicurezza, intesa come mero ordine pubblico, alla sicurezza sociale che nasce dalla capacità di dare un nome ai bisogni e una forma concreta ai diritti. Quando questo non avviene si mortifica il sociale e si dimentica che la solidarietà è inscindibile dalla giustizia, rischiando così di cadere in una cultura corrotta e mafiosa in cui si dà per carità ciò che spetta alla gente per giustizia! Se la politica è lontana dalla strada, dai problemi concreti della gente, dalle sue ferite e dalla sua fatica, allora la politica, paradossalmente, è infedele a sé stessa, divenendo una politica lontana dalla politica».
Gli ultimi, Francesco li definisce profeticamente gli scarti, i senza tetto, i senza lavoro, i senza speranza, il popolo in cammino che non ritrova una bussola e si sente negletto. Che speranza dar loro per andare avanti con dignità?
«In questi primi giorni napoletani ho desiderato incontrare le pagine più sacre del libro di Napoli: i suoi figli feriti. Nel pellegrinaggio simbolico che ho condotto la mattina dell’ingresso ho incontrato persone fragili, povere, vittime di violenza, persone segnate dal sopruso, dalla mancanza di lavoro, dall’ingiustizia, minori a rischio. Volti e nomi precisi, fuori da ogni anonimato ma allo stesso tempo rappresentativi dei tanti volti e dei tanti nomi dimenticati dall’indifferenza. Le devo confessare che sono stati loro per primi a donarmi la speranza, a fortificare la mia fiducia nel sogno di Dio, il mio desiderio di scommettere la vita sul Vangelo. Ora ho il dovere di rimettere in circolo la speranza che mi è stata donata. Lavorando a fianco di tutti gli uomini e le donne di buona volontà per restituire dignità e fiducia nella vita a coloro che sono stati messi ai margini da un sistema sociale iniquo, fondato unicamente sulla logica del profitto. Dobbiamo metterci tutti in cammino e accorgerci di chi ci sta accanto. Sederci alla mensa della vita lasciando una sedia vuota e un pasto caldo per chi non si è presentato all’appello, senza iniziare la festa prima di aver cercato ovunque e con ogni sforzo l’altro che non conosco, che ho perso per strada, che ho lasciato indietro senza accorgermene ma senza il quale la festa sarà meno ricca ed io meno uomo. Per ridare speranza agli ultimi e arginare la cultura dello scarto, di cui così tanto parla Papa Francesco, è perciò importante non solo partire ma restare col cuore nella periferia perché lì arrivano tutte le voci, le domande, le inquietudini. Questo non comporta il rischio di tralasciare altro e altri. Partire dalla periferia è una scelta inclusiva. Fa bene a tutta la Città. È ovvio che non è solo questione di atteggiamento e che questa attenzione alla periferia, esistenziale e non solo geografica, deve tradursi in scelte strategiche reali, concrete. Casa e lavoro, ad esempio, sono realtà urgenti per cui non dobbiamo abbassare la guardia né affidarci a inutili palliativi che minano alla radice la dignità delle persone. La speranza passa anche per le politiche intelligenti di persone che hanno a cuore il bene di questa nostra bella città e per essa sono disposti a investire il meglio. Io ci sono. Questa Chiesa c’è. Oggi e ogni giorno».
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Intervista pubblicata nel “Corriere del Mezzogiorno” del 14.2.2021
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