Se non cambia con la vita, la liturgia diventa un teatrino
Marinella Perroni
Mai, forse, la liturgia è al centro dell’attenzione – e non soltanto di quella dei credenti – come durante la settimana santa. In particolare, poi, durante il triduo pasquale. Quest’anno la situazione drammaticamente inedita che da quasi due mesi ha stravolto i nostri usi e costumi, inoculando paura e incertezza nelle vene del nostro quotidiano, ha fatto implodere i già stanchi “equilibri liturgici” che garantivano che tutto si ripetesse in modo sempre meccanicamente uguale. Che poi le chiese fossero sempre più vuote sembrava poco rilevante.
Se mai questa prova così dolente avrà qualcosa da dire alle chiese, la riflessione dovrà partire proprio dalla liturgia. Non è un caso, d’altra parte, che il primo documento del concilio Vaticano II sia quello che riguarda la riforma liturgica. Né è un caso che in questi mesi, in cui tutti siamo stati travolti dalla pesantezza dell’imponderabile, abbiamo visto accadere di tutto proprio riguardo alla liturgia. A ulteriore testimonianza di quanto da tempo, in realtà, era chiaro, e cioè che per la Chiesa cattolica, purtroppo, l’esperienza liturgica si riduce esclusivamente alla celebrazione della messa. Soprattutto, però, a testimonianza di come l’ostinata resistenza alla ricezione del Vaticano II e alle sue aspettative ecclesiologiche riguardo ai ministeri e all’ecumenismo si rifletta pesantemente nell’incapacità di coniugare lex orandi e lex credendi all’interno dei tempi e degli spazi della città secolare.
Non è questo il luogo per esaminare perché la Chiesa cattolica faccia tanta fatica a lasciarsi alle spalle la forma di Chiesa costantiniana e il modello liturgico tridentino e abbia pervicacemente preferito mondanizzarsi piuttosto che riformarsi. Basti dire che mai come ora essa appare ancora arroccata, dal punto di vista delle istituzioni, in un’interpretazione del non prevalebunt evangelico a dir poco puerile e paralizzata dal rifiuto di dare ascolto a quei teologi coraggiosi e lungimiranti che, da tempo, avevano indicato le strade da percorrere per aprirsi al futuro.
È su questo sfondo che Francesco ha preso su di sé, durante la quaresima e soprattutto durante il triduo pasquale, tutto il peso di una liturgia ormai messa di fronte alle sue responsabilità. La sua figura è stata dominante. Certamente, in virtù del verticistico centralismo romano sostenuto dalla potenza di fuoco comunicativa del Vaticano, ma anche grazie alla sua personale caratura spirituale. Ne ha dato conferma il patetico tentativo di imitazione da parte di vescovi che, dopo aver rispolverato piviali e mitrie dell’epoca della lotta per le investiture, hanno cercato anche loro di calcare la scena, ma con poca fortuna. Da Roma, invece, Francesco non ha parlato al mondo, ma ha parlato con il mondo, e i suoi gesti, seppur a volte non del tutto scevri da rievocazioni medievali, sono però riusciti a dare corpo allo psicodramma nel quale l’intero pianeta è piombato negli ultimi mesi.
Va detto che non tutti i credenti, infatti, hanno ancora acquisito la capacità di (o sono nella situazione adatta per) mettere in pratica le diverse indicazioni offerte dalle chiese locali per diventare soggetti in grado di celebrare la Pasqua nelle proprie case e con le proprie famiglie. E così per tre volte papa Francesco ha dovuto riempiere l’enorme vuoto di una basilica di San Pietro e infondere vita alla inerte teatralità di una celebrazione eucaristica fatta di troppi oggetti, di troppi movimenti e di troppe riverenze. Se non ci fosse stato il respiro di un papa, anziano e affaticato ma indomito, la scena sarebbe stata surreale, una sorta di teatrino in cui uno sparuto manipolo di “soldatini di stagno”, rispettosi del distanziamento sociale, ma rigorosamente schierati in ordine gerarchico pretendevano di rappresentare l’intero corpo ecclesiale. Per fortuna, per Francesco celebrare significa pregare con intensità ed egli riesce così a coinvolgere non solo gli astanti, ma anche i milioni e milioni presenti solo virtualmente. Francesco riesce a essere televisivo senza utilizzare stratagemmi scenografici e, anzi, rende sbiadita e perfino un po’ ridicola qualsiasi scenografia. Imprime infatti alla celebrazione eucaristica il carattere di una spiritualità robusta, quella ignaziana, per la quale la profonda devozione individuale non scade mai in forme di insano pietismo. Il tono delle sue parole, ma anche quello del suo silenzio fanno sì che nessuno possa semplicemente assistere, ma che ciascuno si senta chiamato a partecipare.
Per due volte, poi, lo sterminato popolo virtuale che ha preso parte alle celebrazioni del papa ha fatto esperienza della possibilità di uscire dal tempio e di trasformare la piazza in luogo di una celebrazione liturgica che non fosse la messa. Finalmente, liturgia e vita si sono saldate insieme, non artificialmente, come nelle preghiere dei fedeli precotte che vengono “recitate” con meccanica ripetitività, ma lasciando che la vita irrompesse nella preghiera, anzi, che la preghiera scaturisse dalla vita.
Indicendo il 27 marzo un lungo momento di preghiera dal respiro planetario, il papa gesuita non ha preteso di riempire il vuoto di una piazza San Pietro ma ha fatto percepire l’assenza di tutti come la presenza di ciascuno, lo ha reso così luogo abitato nel quale raccogliere l’angoscia del mondo e dal quale innalzare la preghiera di supplica. La sera del venerdì santo, poi, Francesco non ha “presieduto”, ma ha partecipato alla Via crucis, assommando nella sua figura tutti i credenti e non credenti che da tempo ormai hanno imparato a rivivere l’antica pratica devozionale. Lo ha fatto dando finalmente la parola a coloro che, in un sotterraneo della storia come il carcere, vivono cammini di dolore e di speranza in carne e sangue, cammini che, come i salmi biblici, sono già di per sé preghiera. E all’autorità di quelle parole, finalmente non “prestate”, Francesco non ha voluto aggiungere nessun’altra parola: con quel suo silenzio ha compiuto con autorevolezza magisteriale un gesto di cui, non a caso, si ha paura di parlare, perché mette radicalmente in discussione quell’uso/abuso della parola tipicamente clericale durante le nostre liturgie.
Le nostre nonne dicevano che Dio manda il freddo secondo i panni ma, forse, si può anche dire che Dio manda i panni secondo il freddo: a una chiesa cattolica che da troppo tempo ormai vive celebrazioni imbalsamate un anziano papa gesuita sta suggerendo che può ripartire solo dalla vita: se spegne la vita dentro formule e riverenze, la liturgia perde la sua funzione originaria e la sua forza originante.
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Articolo pubblicato sulla rivista Il Regno il 20.04.2020
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