Una spiritualità al di là del mito. Il terzo passo del cammino “oltre le religioni”
Da: Adista Documenti n° 41 del 30/11/2019
Non servirà a nulla trincerarsi dietro i dogmi della tradizione: di fronte allo tsunami che sta travolgendo l’umanità – una sorta di mutazione genetica spirituale, una metamorfosi culturale dagli esiti imprevedibili – l’unico cammino percorribile è quello di trovare con urgenza la chiave per costruire una nuova visione che ci permetta di andare incontro nel modo migliore – più compassionevole, più inclusivo, più umano – al futuro che sta arrivando.
È questo l’obiettivo che, in linea di continuità con la riflessione già sviluppata con i due precedenti volumi della serie, Oltre le religioni e Il cosmo come rivelazione, si pongono gli autori del libro Una spiritualità oltre il mito. Dal frutto proibito alla rivoluzione della conoscenza, anch’esso, come gli altri due, nato dalla collaborazione tra Il Segno dei Gabrielli e Adista(2019, pp. 231, euro 18; il libro può essere acquistato a partire da fine novembre anche presso Adista, scrivendo ad abbonamenti@adista.it; telefonando allo 06/6868692; o attraverso il nostro sito internet, www.adista.it).
Curato dalla nostra redattrice Claudia Fantie dal teologo José María Vigil, il libro raccoglie gli interventi di alcuni dei maggiori rappresentanti della nuova teologia di frontiera – Matthew Fox, David Molineaux, Judith Ress, Ferdinando Sudatie Santiago Villamayoroltre allo stesso José María Vigil –, rivolti a tutti coloro che vivono una tensione ormai insostenibile tra la fede tradizionale e l’appartenenza a una società radicalmente nuova, caratterizzata dalla crescita esponenziale delle conoscenze.
E se è proprio all’incompatibilità tra le due visioni che si deve il modo schizofrenico in cui tante persone, figlie allo stesso tempo della scienza e della fede, vivono la loro duplice appartenenza, l’obiettivo degli autori è quello di tracciare delle piste per una rielaborazione del patrimonio simbolico religioso, così da riconciliarlo con un mondo che sta drasticamente cambiando, riunificando il cuore diviso dell’umanità.
È il compito che attende anche la religione cristiana, chiamata a rivedere, come insiste Sudati nel suo contributo, il suo «intero impianto dottrinale», «superando anche il timore di dover mandare al macero gran parte della teologia speculativa che gli ha fatto da sostegno». E così ricreandosi a partire da nuovi presupposti (il post-teismo, il biocentrismo, la critica alla desacralizzazione della natura) e dalla consapevolezza che l’attuale ricerca di spiritualità trova una risposta più convincente nelle nuove scienze – cosmologia, meccanica quantistica, scienze della mente – che nelle religioni tradizionali; più nella grandiosa epopea del cosmo come «storia della materia che si risveglia» (secondo la bella espressione dell’astronomo Hubert Reeves) che nel ben più limitato racconto della salvezza proprio della tradizione cristiana. Che è poi quanto sottolineano a più riprese gli autori del libro, ponendo l’accento sulla riscoperta della «Realtà Cosmica Sacra Totale di cui siamo parte» (Vigil), sulla «necessità vitale di una spiritualità dalle radici profonde come gli impulsi insondabili che ispirano lo sviluppo evolutivo dell’universo» (Molineaux), sul «passaggio dall’insistenza sul progetto umano all’attrazione verso il progetto della Terra» (Ress), sul «recupero del senso della sacralità della Terra e di tutti coloro che la abitano» (Fox).
In questo quadro, allora, se le religioni come sistemi di credenze prodotte nel quadro epistemologico dell’ormai archiviata tappa pre-scientifica non hanno probabilmente futuro, quello della spiritualità umana si annuncia invece straordinariamente fecondo, come suggeriscono le stesse esperienze a cui si richiamano gli interventi del libro, dal processo del “Continual Blossoming” (“fioritura continua”) ispirato alla nuova cosmovisione di Teilhard de Chardin, Thomas Berrye Brian Swimme– di cui parla Judith Ress – fino alle quattro vie della spiritualità del creato descritte da Matthew Fox.
Di certo, se non abbiamo più bisogno di un cielo, del «principio universale di trascendenza» costituito dall’amore – un amore senza limiti, senza condizioni, senza giustificazioni – non potremo mai fare a meno. E in questo, certamente, il cristianesimo ha ancora molto da dire, riscattando, sottolinea Sudati, «il cuore dell’insegnamento di Gesù»: quel “poco” che rimane della religione cristiana una volta sfrondata del mito, ma che in realtà «è il “molto” e il “tutto” perché è l’essenziale». È allora che la Chiesa potrebbe davvero diventare un giorno, come scrive Villamayor, un’«Internazionale della giustizia, come un Regno dei mari, senza terraferma né cielo limpido, che riunisca tutti i poveri diavoli che sovvertono i sistemi di dominazione». O che potrebbe nascere, secondo la proposta di Matthew Fox, un “Ordine spirituale” in grado di accogliere, a differenza di un qualsiasi ordine religioso, persone provenienti da ogni tradizione spirituale o estranee a tutte loro sulla base di un «unico voto obbligatorio»: quello di amare e difendere la Terra, e tutti i suoi abitanti, al meglio delle proprie possibilità e capacità.
Proponiamo alcuni stralci del libro, tratti dai contributi di Vigil, Sudati e Villamayor.
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Non si tratta più di “credere”
(…). Negli ultimi millenni, per un buon numero di religioni, la religiosità e la spiritualità sono consistite fondamentalmente nel “credere”, nell’accettare un certo insieme di credenze, per quanto potessero sembrare inverosimili o addirittura assurde, confidando ciecamente in Dio. E credere consisteva essenzialmente nella sottomissione della persona, della nostra comprensione. Così, la fede era una delle virtù fondamentali, senza cui era impossibile fare cosa gradita a Dio.
In una società sempre più segnata dalla scienza, non ha più senso una religiosità centrata sul credere, sulla rinuncia alla ragione, sulla sottomissione. (…). Le nuove generazioni si meravigliano del fatto che vi sia stata un’epoca in cui la religiosità fosse intesa come “credere a ciò che non si vede” (…). La spiritualità può essere da loro vissuta solo a partire da un sistema operativo differente.
Integrazione dei dualismi, senza più due piani diversi
È da 5-7.000 anni che viviamo con una visione scissa del mondo, dalla fine dell’età del rame, quando sono apparsi i primi miti sulla separazione del cielo e della terra. Ciò ha comportato la schizofrenia (esquizós frenós, mente divisa) del nostro mondo e della visione che ne abbiamo, ma, soprattutto, la grande scissione della Realtà: l’espatrio della divinità verso un cielo fuori dal mondo, da una parte, e la desacralizzazione e l’indebolimento della natura e del cosmo, dall’altra. Da allora, indeboliti anche noi, siamo vissuti alienati, dipendenti da un piano superiore capace di accaparrarsi tutto il valore fino ad allora risieduto in questo meraviglioso cosmo, e in noi con esso. Questa divinizzazione del cielo con la corrispondente demonizzazione della terra e della carne è stata una caratteristica millenaria dominante della religione-spiritualità, almeno di quella occidentale.
Con l’avanzare della conoscenza, la tendenza è a invertire quella schizofrenia introdotta con la separazione in due piani. Stiamo cercando di recuperare l’unità, di operare il riscatto della Terra e del cosmo. La spiritualità smette di essere del Cielo per tornare della Terra; smette di essere delle anime per appartenere anche ai corpi, all’essere umano integrale. La vita dell’anima, la salvezza dell’anima, l’andare in cielo o l’evitare l’inferno fanno parte di un tipo di religiosità in via di superamento. (…). Procediamo verso il riscatto di una spiritualità centrata sulla Sacralità della Realtà cosmica, del nostro Oikos Sacro, non più su un cielo immaginato al di sopra delle nubi o nel retro ontico della metafisica. In campo religioso si cercritica cherà pertanto di vivere come ciò che siamo, come Terra giunta a pensare, a conoscere, ad adorare, a riscoprirsi come Gaia, cosmo cosciente e sacro in evoluzione.
Svuotamento dottrinale-dogmatico
Nel loro desiderio di dominio, le religioni – e in particolare il cattolicesimo in quanto erede dell’impero romano – sono cadute nell’ossessione di elaborare la propria dottrina, de omni re scibile (in qualunque materia della quale si possa trattare), come dottrina ufficiale, ortodossa. Vale a dire: il controllo del pensiero di fronte a chiunque dissenta, considerato automaticamente eretico. (…).
Nella nuova epistemologia, la religione non ha motivo di avere una verità propria, una dottrina ufficiale, allo stesso modo in cui non ha un’opinione medica, o astronomica, o biologica proprie. In nessun campo la religione ha qualcosa da insegnare, qualcosa da imporre: essa dipende dal sapere autonomo dell’umanità, elaborato secondo i metodi della scienza, al di fuori di ogni imposizione dei vecchi criteri di tradizione, rivelazione o autorità. La ricerca della verità è un dovere e un diritto di libertà: nessuna religiosità è possibile a partire dal sacrificio dell’intelligenza o della libertà.
Spiritualità post-teista
Il sistema operativo teista tradizionale di molte delle nostre società religiose degli ultimi millenni è entrato da tre secoli in una crisi di legittimità epistemologica. Attualmente sembrerebbe una crisi terminale. I tempi per credere nei miti di separazione del cielo e della terra, con un inquilino esterno ma pronto a intervenire, collocato su un piano superiore, stanno volgendo al termine. Sono milioni i credenti che hanno smesso di credere in un theós perché non trova posto nella loro testa (problema epistemologico). Le istituzioni ecclesiastiche – inclusi il clero e la teologia ecclesiastica – si mostrano in generale incapaci di archiviare e riconvertire un concetto tanto tradizionale e radicato nel popolo semplice, di modo che l’emorragia di fedeli di livello epistemologicamente più critico, soprattutto tra i giovani, prosegue, e in maniera piuttosto grave. (…). I tempi sono post-teisti, o, come precisano alcuni autori, “anateisti”, tornando (aná) al Sacro Divino dopo aver superato il concetto ellenistico (theós). Cosicché la riconciliazione tra cristiani e atei, per esempio, non è solo possibile, ma reciprocamente benefica. Già ai tempi di Pio XII, Teilhard de Chardin sognava il superamento non solo del theós greco, ma anche del dio paleolitico che Teilhard vedeva nascosto dietro di esso.
Spiritualità post-religionale
È ormai comune, accettata nella cultura generale delle società avanzate, la distinzione tra spiritualità e religione, generalmente sconosciuta fino a non molti anni fa. Si ritiene che la religione, per la sua stessa natura, non abbia posto nella società che sta andando incontro alla propria metamorfosi spirituale. I dati statistici lo confermano: la spiritualità umana è viva, il suo interesse è persino in aumento, ma ora funziona con un sistema operativo non “religionale”.
Che fare?
• Il primo atteggiamento richiesto sarebbe quello di diventare consapevoli di tutto ciò, per vedere realmente ciò che sta avvenendo epistemologicamente nell’attuale umanità in trasformazione, invece di guardare solo indietro, verso lo stagnante e intoccabile “deposito della fede”. Tirar fuori insomma la testa dalla sabbia, cioè aprire la mente oltre le categorie giudaico-greco-romane in cui è stato rielaborato il cristianesimo del III e IV secolo, auto-proclamatosi rivelato da Dio, auto-definito ex cathedra, immodificabile. Superare questa prigione epistemologica in cui ci siamo auto-confinati e liberare dall’oppressione epistemologica tante persone che si sentono soffocate dal racconto biblico e da una dottrina scritta sulla pietra e accumulata sulle loro spalle.
• Il problema più grave che soffre concretamente la Chiesa cattolica è proprio la sua epistemologia ufficiale, che, nell’attuale fase dell’evoluzione umana, appare assolutamente obsoleta, inaccettabile in qualunque università, riconducibile a un immaginario medievale di rivelazioni metafisiche e soprannaturali oggi inverosimile. Secondo i suoi documenti ufficiali degli ultimi quaranta anni – ancora in vigore – essa possiede la verità completa ed esclusiva e persino le sue stesse elaborazioni, una volta solennemente proclamate, hanno il sigillo della verità eterna e restano così “legate nel cielo”, diventando immodificabili, perché partecipi dell’immutabilità della verità rivelata, e vincolanti per tutta l’umanità, con i conseguenti conflitti delle gerarchie con la società civile, a cui si vuole imporre la morale esplicitamente cattolica anche in temi di etica civile.
Questa è ancora l’epistemologia ufficiale. Sotto il pontificato di Bergoglio molti principi di questa epistemologia neppure vengono più citati; sono tirati in ballo solo dai suoi nemici. Ma sono ancora lì, ufficialmente in vigore, e possono tornare in primo piano in qualunque momento, insieme alle calzature rosse conservate nell’armadio.
• Occorre elaborare una teologia della liberazione epistemologica per contribuire all’emancipazione dall’oppressione epistemologica, aiutando a capire che non si tratta di una moda progressista, ma di un imperativo di coscienza. (…). Questo lavoro teologico deve contribuire a smantellare l’enorme edificio dogmatico che pesa sulla istituzione stessa e di fatto la paralizza. Si tratta di un’urgenza. La conversione epistemologica – ho scritto altrove – è forse la più grande conversione richiesta ora alla Chiesa.
• Per i formatori di opinione, i catechisti, gli operatori di pastorale… è importante segnalare l’urgenza di un cambiamento di linguaggio, lasciando da parte già diverse cose.
Dico solitamente che tanto quanto studiare i nuovi paradigmi, le nuove visioni dei problemi, è importante prendere coscienza delle tante cose dette per secoli, anche per più di un millennio, che non si possono più continuare a ripetere: esempi, simboli, anche frammenti biblici. Ricordiamo come dopo il Concilio Vaticano II, traducendo i salmi, venissero eliminati frammenti che, fino ad allora recitati in latino, erano rimasti in ombra, ma che, una volta tradotti, brillavano in tutta la loro perversione: «Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra» (Sal 136). Letti con la coscienza attuale, vi sono molti altri testi, anche biblici, che non possono più essere letti e proclamati come “Parola di Dio”, bensì come parola umana su Dio. (…).
• Si deve approfittare di qualunque occasione per avvicinarsi a comunità aperte in cui sia possibile porre tali questioni. Non lo si farà in un confessionale nascosto nell’oscurità di una cappella laterale di un vecchio tempio, né in una qualsiasi parrocchia, ma in comunità aperte, critiche, adulte. Quelle, per esempio, che, se non trovano tollerabili i testi liturgici ufficiali della messa, si prendono la licenza, perfettamente legittima, di “celebrare la memoria di Gesù” (non la messa) in una maniera più libera e creativa, che è qualcosa che non è mai stato proibito.
Non è vero che, nel cristianesimo, tutto ciò che non viene imposto è vietato. Non si deve giocare con i sacramenti ufficiali, ma se la Chiesa, inesplicabilmente, li mantiene anchilosati, con riti e testi di cinque secoli fa che traboccano di teologia medievale obsoleta, i cristiani hanno il diritto di celebrare la memoria di Gesù («fate questo in memoria di me») in altra maniera, senza interferire con il sacramento.
• (…). Sono milioni e milioni – lo dicevamo all’inizio – le persone che si sono viste obbligate in coscienza ad abbandonare il cammino ecclesiale di Gesù per seguirlo senza dover credere alle favole, che non è mai qualcosa a cui può obbligare Dio. Sono milioni le persone che spesso vanno avanti sole, senza una comunità, fuori dall’intera Chiesa istituzionale. Ma hanno un grande merito: si sono sentite costrette a scegliere e hanno optato consapevolmente per la via più difficile, andando avanti per la loro strada senza la Chiesa. (…). Da qui, da questa nuova società, in questa fase dell’evoluzione, in questo nuovo tempo assiale, crediamo che si debba dire, con san Giovanni della Croce: «Qui non c’è più cammino…». E con Machado: «Camminando si apre cammino»
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Cristianesimo senza miti
L’opzione del simbolico
Ai fini di questa riflessione non è necessario stilare l’elenco dei miti accolti nel cristianesimo. Di alcuni si è già fatto sommario accenno. Allo stato puro, o mimetizzati, si trovano a tutti i livelli, in particolare nella Bibbia, nella liturgia e nei simboli di fede. L’argomento comincia ad affiorare esplicitamente anche nei titoli di recenti opere dovute a teologi di estrazione cattolica, quali G. Lorenzo Salas, Una fede incredibile nel XXI secolo. Il mito del cristianesimo ecclesiastico e Salvador Freixedo, Il cristianesimo, un mito in più.
Titoli così emblematici e, diciamo pure, dirompenti, se non sono – e non lo sono – uno stratagemma di mercato, hanno lo scopo di segnalare qualcosa di serio: la difficoltà, per non dire l’impossibilità, per il cristiano d’oggi di conciliare il dato di fede e la visione scientifica del mondo. Illudersi che si possa andare avanti semplicemente rinfrescando la tradizione ereditata e ignorando lo sviluppo della conoscenza nella nostra epoca, con le sue forti esigenze logico-razionali, non sarà di alcun aiuto e, in particolare, non cambierà lo stato della situazione.
Per questo, molti credenti che si trovano nella “zona di confine” tra l’antico e il nuovo paradigma culturale-religioso, e sono pienamente consapevoli che indietro non si torna, hanno fatto l’opzione del simbolico: per salvare la loro integrità e conservare in qualche modo la loro fede, hanno trasferito su di esso la quota prima assegnata all’interpretazione letterale e alla visione statica del sistema religioso tradizionale. Ciò ha consentito a sempre più cristiani, cattolici in particolare, di continuare a dire il credo la domenica nelle loro comunità di culto, a celebrare i sacramenti e, in una parola, a restare nella Chiesa senza un intollerabile dissidio interiore. Con più simbolo e meno lettera tentano di integrare nella loro vita una dimensione spirituale ancora importante, in attesa che qualcosa evolva.
Questa soluzione è, per certi aspetti, una via di fuga, e potrebbe perfino essere tacciata di doppiezza, ma intesa come scelta provvisoria, mentre ci si trova nella zona di confine tra il vecchio e il nuovo, è indubbiamente positiva.
C’è un’altra ragione che la giustifica: il nostro linguaggio è sempre lontanissimo dal cogliere il suo oggetto che, in ultima analisi, è il mistero di Dio di cui siamo parte, e verso il quale ci muoviamo a tentoni. Su uno sfondo di dimensioni galattiche, le distanze delle nostre posizioni si riducono, le differenze si assottigliano, e si è indotti a tolleranza e comprensione. Questo non deve suonare a elogio dell’immobilità, dal momento che i ritardi storici non sono né innocenti né innocui, quanto essere un invito a sfuggire l’idolatria, perché solo gli idoli si possono racchiudere negli schemi mentali umani. E nessuno oggi può avere la pretesa di definire Dio.
Il simbolico ci salverà? Senza farsi troppe illusioni, un po’ ci salverà, in questa fase di transizione e a patto di non scambiarlo per la realtà ultima ma di considerarlo come un indice puntato nella sua direzione.
Il senso del nostro limite
Ci sono cose, che sarebbero di primaria importanza per pacificare la nostra mente, che non sappiamo e forse non sapremo mai. Cosa c’era prima del Big Bang? Dell’essere umano conosciamo i rudimenti e dell’Universo ignoriamo ancora molto o la gran parte, e rimaniamo del tutto all’oscuro quanto alla sua origine e al suo scopo. Uno studioso invita a immaginare i circa 14 miliardi di anni della storia dell’Universo compressi in un solo anno. Il risultato è sorprendente:
«La galassia della Via Lattea si è auto-organizzata a fine febbraio; il nostro sistema solare è emerso dalla polvere stellare elementare di una supernova esplosa all’inizio di settembre; gli oceani del pianeta si sono formati a metà settembre; la terra si è risvegliata con la vita a fine settembre; il sesso è stato inventato a fine novembre; i dinosauri sono vissuti per alcuni giorni all’inizio di dicembre; le piante da fiore sono esplose sulla scena con un’abbagliante gamma di colori a metà dicembre; e l’universo ha cominciato a riflettere consapevolmente attraverso l’essere umano, con possibilità di scelta e libero arbitrio, meno di dieci minuti prima della mezzanotte del 31 dicembre… Abbiamo infatti saputo di essere la terra che pensa se stessa solo negli ultimi secondi».
Veniamo a qualcosa che più c’interessa:
«Su questa scala di 12 mesi, Gesù sarebbe nato il 31 dicembre alle 23:59:45. Le grandi scoperte scientifiche di questo secolo sarebbero avvenute nell’ultimo secondo dell’anno ». L’espediente di riprodurre nelle proporzioni di un nostro anno solare l’enorme arco di tempo che la scienza assegna al dispiegarsi dell’Universo ci fa capire che gli esseri umani con il loro passato storico sono un’entità trascurabile sulla bilancia del tutto, sebbene siano qualcosa di unico, per quanto ne sappiamo, a motivo dello sviluppo dell’intelligenza e dell’autocoscienza. (…).
Il dato quantitativo non è un criterio di verità, ma le conoscenze sull’origine e sulle dimensioni dell’Universo fornite dalla nuova astronomia e cosmologia ci riportano al senso delle proporzioni e servono a farci capire che dobbiamo uscire dalla favola e modificare la nostra concezione di Dio e, conseguentemente, il modo di vedere il mondo, la storia e l’essere umano. Come umanità, e ancor più come individui, siamo la precarietà e l’inconsistenza assoluta.
A questo punto, come persone religiose, dovremmo cominciare a stupirci di aver preteso di sapere tutto di Dio, perfino i suoi più riposti pensieri e, scusandoci di averlo così rimpicciolito, trarne le dovute conseguenze: rispetto e tolleranza verso le altre culture, fedi e religioni; capacità di relativizzare quanto costituisce il proprio patrimonio culturale e religioso.
L’operazione riguarda specialmente la Chiesa cattolica, una Chiesa-Stato che dispone di una Curia con almeno sessanta organismi, che spaziano su tutti i settori del sapere e del potere, sebbene quest’ultimo sia affidato soprattutto all’apparato statale vero e proprio, che dispone anche di nunziature, cioè di rappresentanze diplomatiche di stampo politico-religioso, in tutto il mondo. Il principale organismo curiale, la Congregazione per la dottrina della fede, si è pronunciato un anno fa su quando e come è lecita l’isterectomia (Responsum del 10-12-2018); e qualche mese prima una sua Lettera su alcuni aspetti della salvezza cristiana (22-02-2018) s’intitolava Placuit Deo, un incipit preso da Efesini ma di sapore autoreferenziale. Se nella Curia romana si è a conoscenza di ciò che piace a Dio ci sarebbe solo da rallegrarsi, ma la storia non sembra confermare questo, tenuto conto delle volte che ha dovuto, fortunatamente, rettificare i suoi pronunciamenti.
Comprensibile, per tale istituzione, la difficoltà a rinnovarsi, a uscire da un involucro sacrale-mitologico, che offre “sicurezza”, per entrare con meno garanzie nel nuovo tempo assiale, età di conoscenza e radicale cambiamento. A chi obietta che simile impresa rischia di vanificare il cristianesimo, si può rispondere che è difficile renderlo più vano di quanto stia diventando, e con prospettiva di peggioramento. Il rischio, del resto, è scongiurabile, almeno in parte, non cercando di conservare ciò che è morto ma solo intensificando l’impegno a realizzare il lascito più urgente e attuale di Gesù. Ne è già stato fatto un accenno sopra (cfr. § 6), ma vediamolo ora compendiato dal teologo J. M. Castillo:
«I cristiani dovrebbero ritenere, con maggiore chiarezza, vigore e fermezza, che la teologia cristiana non ci ha fatto capire bene una cosa fondamentale: la Chiesa ha dato (e continua a dare) più importanza alla Religione che al Vangelo. Non dimentichiamo che è stata la religione a uccidere Gesù. Perché Gesù ha dato più importanza all'”umano” che al “religioso”. Nella “teologia narrativa” dei Vangeli, ciò che è più chiaro e più evidente è questo: quando Gesù ha affrontato il dilemma di porre rimedio alla “sofferenza umana” o di sottomettersi alla “osservanza religiosa”, non ha esitato un momento, la prima cosa è stata sempre dare la vita, alleviare il dolore, restituire dignità e diritti agli esseri umani. La cosa è chiara: troviamo Dio nella misura in cui diventiamo profondamente umani. Solo allora possiamo essere veramente “divini”». Già agli albori del cristianesimo un seguace di Gesù scriveva: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (Gc 1,27). Gli esempi si possono moltiplicare: da san Paolo, «qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Rm 13,9), a rabbi Hillel (I sec. d.C.), «Non fare al prossimo ciò che è odioso per te. Questa è tutta la legge, il resto ne è l’interpretazione. Va’ e impara!». Il compito enorme di testimoniare l’amore del prossimo in un mondo di egoismo e d’ingiustizia terrà pienamente occupati i cristiani, se lo vorranno, per i prossimi mille anni, solo per riferirci a un lasso di tempo in cui la specie umana, pur candidata alla sesta estinzione di massa che interesserà la Terra, potrebbe essere ancora in circolazione.
La ricerca della verità
Molto di quanto scritto sin qui potrebbe apparire una tardiva riproposta dell’arsenale critico e perfino antireligioso che ha sfoderato le sue obiezioni già agli inizi del cristianesimo, rinnovandole lungo i secoli. Quando, però, gli interrogativi ritornano è segno che non hanno ricevuto risposta soddisfacente, o che non è più soddisfacente in un diverso retroterra culturale e in un diverso panorama storico-sociologico. Gli interrogativi sono di fatto nuovi perché nuove e diverse sono le aspettative, ed esigono quindi di essere affrontati in modo nuovo, con l’accuratezza consentita dagli strumenti culturali a disposizione oggi.
Dovrà fare da preziosa compagnia il motto programmatico di un teologo del XIX secolo: «Cercate la verità, da qualunque parte possa venire, costi quel che costi». Colpisce positivamente la perfetta corrispondenza con una dichiarazione di papa Francesco: «Seguiremo la strada della verità, ovunque possa portarci».
Il papa si riferisce allo smascheramento della pedofilia in ambito clericale, quindi a una verità che riguarda i fatti, ma il criterio vale ugualmente, ed è ancora più stringente, quando si tratta della verità teorica e dottrinale. Il motto del teologo della Virginia forse andrebbe così riformulato:
«Ognuno cerchi ciò che gli sembra verità, in unione d’intenti con tutti quelli che cercano ciò che a loro sembra verità». Perde in bellezza aforistica e diventa più prosaico ma fa al nostro caso, che è quello di chi è consapevole che anche la migliore buona volontà non garantisce dal rischio di cercare la verità nella direzione sbagliata o con strumenti non idonei. Proporsi, tuttavia, di cercarla, con perseveranza, integrità e rispetto è decisione fondamentale, sebbene la ricerca non si concluda mai. La verità, però, alla fine s’impone da se stessa ed è liberante.
La ricerca della verità in ambito religioso, forse più che in altri ambiti, è fonte di disagi, sofferenze, conflitti, giudizi, e anche condanne. Gli argomenti qui toccati sono speciali per attivare tali dinamiche, ma i tempi stanno maturando.
Se le credenze dei cristiani, cattolici in particolare, non saranno ripulite da miti e fallacie, non c’è speranza di dare un futuro al cristianesimo che non sia residuale. Per quanto importante sia stata in passato la nostra tradizione religiosa, oggi, così com’è, costituisce un ostacolo per la fede e la spiritualità. È la fine di un mondo, ne sta nascendo un altro, si può solo passivamente rassegnarsi oppure partecipare e contribuire all’evento.
A un mondo nuovo serve un cristianesimo nuovo. Al cristianesimo nuovo serve episteme: una rinnovata teoria della conoscenza, unita a probità intellettuale. Non sarà la morte del cristianesimo ma solo l’addio alla fase agrario-autoritaria e simbolico- mitologica di una religione. Risuoni, a conclusione, l’avvertimento di Spong: «Se il cristianesimo, come religione, deve sopravvivere, deve sviluppare una comprensione del divino che abbia senso nel XXI secolo. Questa è diventata la nostra massima priorità»
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La speleologia della speranza
Santiago Villamayor
La grande inversione e l’umile conversione
Definisco come “grande inversione” la sostituzione del racconto religioso con un racconto laico sovraetico, l’abbandono della letteralità e dell’esclusivismo biblico, l’interpretazione liberatrice e postreligionale del messaggio di Gesù di Nazareth e la decostruzione del teismo, questa immagine di Dio come “qualcosa” o “qualcuno” di supremo situato in un altro mondo.
Si tratta di un processo simile a quello seguito dallo stesso Gesù nel suo superamento dell’ebraismo. Gesù ha trasformato il concetto di persona religiosa, ha messo da parte il culto, ha centrato il suo sguardo sui più deboli e si è servito del linguaggio popolare e metaforico. Benché, come ebreo e come figlio del suo tempo, partecipasse del teocentrismo e della religiosità dell’epoca, le sue esperienze interiori e la sua compassione lo avrebbero condotto a un paradigma etico e spirituale totalmente inedito nella storia. Tale originalità non si è tradotta in un nuovo progetto di salvezza eterea centrata sull’ambito irreale del mitico peccato originale e della sua redenzione (…). Piuttosto è consistita nella maturazione (…) di atteggiamenti di vicinanza e compassione immense in grado di conquistare subito un gran numero di diseredati.
Le narrazioni che ci comunicano questa vita e questo significato singolari di Gesù di Nazareth, al di là della loro veridicità storica, annunciano un modo di essere persona e un modello di fraternità nuovi ed eccezionali. Qualcosa che è stato rapidamente neutralizzato dalla cultura ebraica e greco-romana dei primi secoli, in quanto ne metteva in discussione il sistema sociopolitico e religioso.
Questi sono alcuni presupposti che, nella mia opinione, dobbiamo tenere in considerazione nell’interpretazione di questi fatti e di questo messaggio. Una lettura non letterale ma metaforica dei vangeli, dei racconti biblici e in generale di tutti i testi definiti sacri e delle tradizioni religiose, spirituali e umanistiche. (…). Una lettura che sfugge definitivamente al dogmatismo e all’indottrinamento. La Bibbia più che ragione o verità possiede anima, impulso di vita e di fraternità (“minimalismo biblico”).
La complementarità tra fede e scienza basata principalmente sulla nuova concezione della conoscenza umana esposta nella prima parte. L’abbandono del concetto di Redenzione e Rivelazione come verità assoluta, come intervento diretto nella conoscenza umana. Il riconoscimento delle scienze come punto di partenza per sostenere una mistica della compassione o della bontà incondizionata. La fede non deve stare in agguato dell’errore ma essere in combutta con la saggezza. (…).
La costruzione di questa mistica e di questa prassi sovraetica di Gesù di Nazareth e di altri come lui, basata non sul moralismo, sul narcisismo spirituale o sul volontarismo politico quanto sull’importanza dell’amore civile e personale fondato sull’autonomia della bella e buona volontà. La fede muove le montagne: il suo potenziale simbolico, il suo invito all’eccellenza personale e all’utopia sociale conducono all’impegno sociopolitico, al sapere critico, all’onestà intellettuale. La confluenza con altre etiche e religioni nell’azione umanizzatrice. Un compito a cavallo tra la politica istituzionale, la critica antisistemica e la cura delle persone e che si estende dal piccolo obolo della vedova fino alle più alte sfere degli organismi internazionali.
A metà del secolo scorso la Teologia della liberazione ha delineato il quadro epistemologico e morale per una reinterpretazione più sincera del cristianesimo: il suo “a partire dai poveri” è rimasto il presupposto di qualsiasi analisi sociale. La TdL è entrata in pieno nelle profondità dell’ingiustizia come inferno reale, come croce da cui far scendere tutti gli oppressi. Ha abbandonato il magistero scolastico del XIX secolo e ha proiettato il sentimento di divinità nella liberazione dei poveri. Ha sviluppato una spiritualità “dal basso verso l’alto”, dalla vita all’amore che ci oltrepassa, anziché del Dio sovrano che redime a partire da una creazione fallita.
Da vari lustri assistiamo anche a una seconda conversione o passaggio sotto la spinta della secolarizzazione crescente, del progresso della conoscenza e della scoperta della politica come amore sociale. (…). Il vangelo non costituisce tanto un’identità religiosa superiore quanto un invito alla radicalità dei valori universali che la comunità umana sta discutendo ed elaborando dal suo migliore sentire, prima chiamato Parola di Dio. Il racconto evangelico ci presenta un Gesù che non è vissuto e morto per una identità religiosa ma per aver amato fino al limite.
(…). Le bellezze interiori condivise e i corpi sofferenti sono i nuovi templi in cui la mente canta e acquista ali per elevare il suo sguardo e balbettare l’indicibile con mille miti, pratiche, sentimenti e azioni assai distanti dalle arcaiche apparizioni, dalle rivelazioni formali e dalle religioni ultraterrene. Abbiamo trovato altri punti di riferimento per amare e, senza abbandonare il significato profondo dei racconti religiosi, stiamo già assaporando altri sapori per un movimento universalista di speranza e di solidarietà che oltrepassi religioni e culture, prolunghi la scienza e ci unisca tutti in una grande Internazionale. Qualcosa che nella nostra cultura Gesù di Nazareth ha annunciato come “Regno di Dio”. Sarebbe bello se la Chiesa fosse un giorno questa Internazionale della giustizia, come un Regno dei mari, senza terraferma né cielo limpido, che riunisca tutti i poveri diavoli che sovvertono i sistemi di dominazione. (…).
Con Dio e senza Dio
(…) Credere in Dio non significa affermare che questa entità esista, descriverla e mantenere con essa una presunta relazione diretta, che si chiami Dio del cielo, Fondamento del nostro essere, Tu, Vita, Madre o Spirito Universale. Credere non è altro che vivere, sentire e pensare dando un valore a tutto, a se stessi, agli altri, alla natura e agli altri esseri. Credere è accettare che si possa affrontare la sofferenza e che si possa sfidare il male, insistendo sulla bontà malgrado tutto. Che la limitazione e il vuoto, la morte che ci accompagna sempre, abbiano meno valore dell’essere che siamo. È credente la persona che ama la propria vita e quella degli altri in base a un paradigma di assolutezza innominabile e che giorno dopo giorno costruisce il suo dio, il suo significato, il suo amore, la sua felicità, il suo umile e lieto impegno senza necessità di portarlo sull’altare al suono di una marcia nuziale.
Non siamo capaci di dare una spiegazione al male, né al motivo per cui vogliamo amare gli altri e prenderci cura del pianeta. Le perdite profonde, laceranti, per gli uni gridano il nome di Dio, per gli altri tacciono nel pozzo comune dell’incomprensibilità. Nessuno vuole vivere nell’insignificanza, per questo cerchiamo quasi sempre la densità e il valore di tutto ciò che tocchiamo. (…).
La questione di Dio pertanto è e sarà paradossale. La gioia di vita che si riflette in un’interiorità straripante di gratitudine non sa a chi o a cosa rivolgere questo ringraziamento. L’esperienza interiore, che ci rende persone, nasce e si riconosce alienandosi, raccontandosi a qualcuno. Il male commesso può restare una brace interminabile di colpevolezza se non è spenta da quell’inondazione d’amore che chiamiamo perdono. Ma nulla di questo certifica l’esistenza di un Essere superiore, infinito e onnipotente. Si limita a postularlo.
Vogliamo tutto, essere autonomi e sentirci protetti, vivere con la presenza di qualcosa che consola, offre garanzie, protegge, restituisce, spiega, ma il dubbio dell’illusione sorvola sempre le acque della fede. Ciò che è proprio dell’essere umano è al tempo stesso la presenza e l’assenza. (…). Più si ama meno si possiede l’amato, ma la ragione e il cuore, mano nella mano, non cessano di produrre ordine e bellezza, un futuro migliore e un passato recuperato. La divinità è la bontà e la bellezza a cui aneliamo e di cui godiamo disinteressatamente senza saperlo.
La bellezza della biancheria interiore e l’attrazione della bontà
Molte persone religiose pensano – e forse hanno ragione – che, se viene meno la religione, il mondo perderà un fondamento per la verità e soprattutto per la moralità, così necessaria a salvaguardare la dignità, la convivenza sociale e la cura del pianeta. La religione, e concretamente il cattolicesimo, ha saputo costruire un sistema molto efficace di esperienza interiore, di motivazione profonda, di celebrazione e ani mazione simbolica, di invito alla donazione, e soprattutto di formazione, benché, questo sì, povera di senso critico. Ma oggi, (…) dopo la “grande decostruzione” del teismo e della religione, quel che resta è l’universalità dell’amore, senza sapere il perché e se servirà realmente a qualcosa. Non senza esclamare in molti momenti “Perché mi hai abbandonato?”.
Ora siamo chiamati a riformulare quella generosità e a ricostruire questo amore senza condizioni. Siamo invitati a edificare socialmente una sovraetica massimamente libera che possa fondarsi sulla bellezza della bontà, sull’impulso creativo del bene. (…).
Tutti i motivi dell’amore naufragano nella ragione logica. «Perché amare gli altri quando non ricevo da loro alcun bene?», diceva Freud. Quando questa ragione strumentale fa acqua, i sentimenti profondi “rompono le acque” e possono inondare la vita di benevolenza. Nessuna motivazione offre una consistenza definitiva. Nulla può rispondere alla domanda del perché amare gli altri, del perché perseguire il bene, del perché salvaguardare il pianeta, l’umanità… però possiamo farlo anche senza sufficienti ragioni, la bellezza del bene ci seduce per se stessa.
L’amore infondato e fondante rimane sempre; alcune volte con abbondanti ragioni e altre con poche. È un principio universale di trascendenza; nessuno lo mette in discussione come principio guida dell’esistenza. Non divide il mondo in atei e credenti. Non ha bisogno di nulla che lo giustifichi. Si ama perché si ama, perché si è liberi, e siamo liberi perché amiamo. (…). È il significato universale di tutti i nomi di Dio. «Non ci viene da un nostro agire eroico, e pertanto riservato a pochi, ma come un regalo alla nostra condizione personale» .
Forse possiamo applicare qui quanto dicevamo sulla complessità della realtà e della conoscenza: che di tanto in tanto si producono singolarità. E forse dall’insieme e dalla cooperazione di tutte le lotte, i dubbi, i naufragi e i piccoli amori potrebbe derivare una trans-motivazione, una biancheria intima di maggiore qualità che ci faccia camminare sulle acque. Nel mare della vita è possibile galleggiare quando ci sostiene la fiducia incondizionata. (…).
La speleologia della speranza e le miniere del cuore
(…). Educarsi all’illimitatezza dell’amore richiede molte piccole opzioni di valore. Alcuni tradizionali mezzi di formazione come per esempio la preghiera o la meditazione, la sincerità interiore, l’ascesi, le celebrazioni, l’emulazione comunitaria e via dicendo ci sono riusciti.
Ma oggi è quasi impossibile continuare con queste “pratiche religiose”. La teologia che le sostiene viene meno come costruzione razionale. (…). La teologia potrà essere come una ricerca incerta della trascendenza: la si potrebbe piuttosto definire una “speleologia della speranza” così come le profondità che la sostengono potrebbero essere chiamate “le miniere del cuore”. (…).
Uno sforzo condiviso senza distinzioni da atei, credenti e agnostici. Una confluenza di religioni e umanesimi. Nel nostro ambiente cristiano, un “Regno” di nomadi al modo delle immagini e delle figure disegnate dai percorsi, dalle parabole e dai piccoli racconti della vita di Gesù. A partire dalla sua stessa vita, semplice e rischiosa al tempo stesso; non la grande epopea o il racconto assoluto della sua morte sacrificale e della sua miracolosa resurrezione. «Non il Gesù della croce, ma quello che ha camminato sul mare» (Machado)
Questi sono alcuni filoni di speranza.
L’impulso naturale della vita che ci porta a uscire da noi e a espanderci è il primo bagliore sorto nell’oscurità dell’energia cosmica e condotto fino alla meraviglia della coscienza e dell’amore. Il benessere, la salute e la gioia di vivere di cui gode già molta gente, anche con scarse risorse, e malgrado la consapevolezza della propria provvisorietà, aprono la possibilità che tutti possano raggiungere la stessa meta. Una meta impensabile senza un impegno serio.
Un altro faro è dato dalla resistenza delle vergini prudenti, dalle lotte e dalle attese interminabili in tanti angoli del pianeta che pure non vengono mai meno. I racconti mitici delle grandi tradizioni e dei piccoli poeti, con la loro intermittenza di luce e di ombra, di utopia e di realismo, sono anch’essi fuocherelli che illuminano umilmente la notte dei popoli. Le scoperte scientifiche, le pennellate dell’artista, i sentimenti mistici, i gesti di solidarietà condivisi, sono altrettante aperture esplorate dalla speleologia.
È il momento di continuare a cercare e a scavare nella speranza, di scoprire trascendenze percorrendo gallerie e passaggi difficili. Entrare ben ossigenati nelle voragini asfissianti della sofferenza, nelle volte annerite dal fumo dogmatico. Non nella vita delle stelle ma nelle vite stellate. Cercare nella conchiglia della coscienza e nella spirale del cosmo, nei gomitoli aggrovigliati della politica o delle relazioni personali, luoghi tutti, questi, enigmatici e senza fondo.
E questo scendere in profondità, questo penetrare nelle viscere dell’enigma ci suggerisce un’altra bella immagine, quella delle miniere della compassione. Il minatore colpisce ripetutamente la dura materia come Mosè la roccia, in cerca dell’acqua o del minerale. Entra nella realtà profonda, dove confluiscono la coscienza dei sentimenti e il “volto” dell’altro, la bellezza e la sofferenza; e dalla comunione della sofferenza e della gioia, nell’angolo più nascosto della miniera, nasce l’amore universale che tutto abbraccia. Perché amare è compatire e arrivare al fondo del proprio nulla (Unamuno) e scoprire che «Tutta la verità e la bellezza procedono dall’interiorità» (Agostino di Ippona), dal fondo dell’“anima”, dove si accumulano fossilizzati i resti preistorici e recenti di un’umanità che soffre, gioisce e dà la vita in un processo millenario di vita e di morte. Questo vuol dire il mito della Redenzione.
È in questa doppia consapevolezza, quella della limitazione che ci rende compassionevoli e quella della pienezza che ci rende creativi, che becchettiamo ancora e ancora l’amore che nasce, secondo i classici, dalla necessità e dall’abbon danza. Quanto più dentro tanto più abbondantemente e più vicino. Il cielo è nel nucleo della “Terra”. È il momento, pertanto, dopo quanto scritto, di un nuovo paradigma cognitivo ed emozionale, di altri linguaggi, di altra biancheria intima. Né la religione di un altro mondo, né una laicità insignificante.
È il momento di modellare lentamente e rispettosamente la nuova umanità, a partire dall’amicizia civica e dal desiderio di sapere, dall’amore incondizionato che comincia da più deboli, dall’apertura a ciò che ci oltrepassa. E di costruire così una nuova ragione (razón) e un nuovo cuore (corazón). Un nascente co-razón che ci orienti tutti nella diversità.
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