Disobbedire per amore
Vitaliano Della Sala 18/07/2019, 16:11
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 28 del 27/07/2019
Escludendo la squallida vicenda del Russiagate, che sta offuscando l’inarrestabile ascesa di Salvini, entriamo nel pieno dell’estate con una sfida sospesa: Matteo Salvini vs. Carola Rackete, a cui ha preso parte buona parte del Paese e oltre. Una sfida sproporzionata tra il ministro, vice presidente del Consiglio, capo della Lega, contro una semplice cittadina europea; perciò una sfida vigliacca, scorretta, che ha spalancato le gabbie dei leoni da tastiera, dando libero sfogo ai peggiori insulti, che in verità si sono sentiti anche dal vivo, nel . Quello che mi ha colpito di più in questa vicenda, oltre la ferocia e la disumanità ostentate da Salvini, è stato il finto scandalizzarsi del fasullo Capitano padano, per la disobbedienza a un ordine da parte della capitana vera della Sea Watch, una nave che aveva strappato degli esseri umani alla morte in mare. Certamente si può discutere sulla disobbedienza, si troveranno ragioni pro e contro, e ciascuno se ne farà un’idea. Colpisce la teatrale meraviglia di Salvini che invoca legalità solo ora, e non quando i leghisti pretendevano un’anticostituzionale secessione, o quando il loro capo di allora si sarebbe volentieri «pulito il culo» con il Tricolore! Don Lorenzo Milani gli avrebbe risposto semplicemente che «l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». Padre Ernesto Balducci gli avrebbe fatto eco rispondendo che «ognuno di noi deve rendersi conto della obbedienza che ha dovuto prender le forme della disobbedienza». Per non scomodare Gandhi, Martin Luther King ecc.
Mi piacerebbe che, passate le ferie estive, centinaia di messaggi dei parroci italiani, a nome delle proprie comunità, intasassero i canali di comunicazione del ministro del Terrore Matteo Salvini, per raccontargli quanto, disobbedendo, ciascuno sta realizzando nella propria parrocchia; una lettera – una e-mail, un post ecc. – che suoni più o meno così: «Ministro, le comunico che nella mia parrocchia ospito una coppia di persone senza documenti o, come dice lei, clandestini. Non riesco a descriverle la disperazione che trasmettono quando raccontano le proprie disavventure vissute nei loro Paesi, nel deserto, nei campi di concentramento libici, nel mare; la stessa disperazione che li prende di fronte alla prospettiva di un malaugurato rimpatrio forzato. Signor ministro, che cosa avremmo dovuto fare? In ossequio ai suoi ordini avremmo dovuto negare loro l’ospitalità, rinunciare a farci carico dei loro problemi, magari allontanandoli con un’elemosina di circostanza? In nome del Vangelo non ce la siamo sentita. Abbiamo dato la precedenza alle persone concrete, alle loro storie di difficoltà e di dolore, all’urgenza del loro bisogno piuttosto che alla loro posizione giuridica nei confronti dello Stato italiano.
La nostra piccola iniziativa ha coinvolto gente semplice, gruppi, associazioni, credenti e non credenti; in tanti, dal contatto concreto con gli immigrati, hanno compreso in modo immediato che straniero non è sinonimo di spacciatore e delinquente, come la sua propaganda vorrebbe farci credere. Ci siamo confrontati a lungo con i documenti del Magistero; con un insegnamento che non tentenna nell’affermare l’assoluta priorità per il cristiano di farsi prossimo a chi non ha prossimo.
E chi è più privo di prossimo degli immigrati, sradicati dalla loro terra, lontani dalla patria e dagli affetti? Accettare fino in fondo il Vangelo di Nostro Signore e l’insegnamento della Chiesa ci porta a denunciare fermamente l’imperante ondata di razzismo e ad andare controcorrente rispetto al dilagare del perbenismo ipocrita anche di alcuni cattolici; e ci pone, inoltre, di fronte ad un dissidio inconciliabile: all’impossibilità, cioè, di rispettare le leggi dello Stato che si ergono come muro ad arginare la massa dei disperati che preme. Proprio noi cristiani non dovremmo mai dimenticare che siamo figli di Abramo, nostro padre nella fede, di Mosè e Giosuè, “immigrati” nella Terra Promessa; grazie a Dio, san Pietro è giunto a Roma duemila anni fa, riuscendo così a fondarvi la Chiesa, oggi sarebbe stato espulso come extracomunitario clandestino.
Ministro Salvini, sono passati troppi mesi dall’Angelus durante il quale papa Francesco ha rivolto un appello alle parrocchie invitandole “ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi”. Quell’appello è stato il riconoscimento di un problema nella Chiesa italiana, spaccata tra chi vuole un’accoglienza intelligente, chi propone i porti chiusi brandendo il rosario, e i soliti indifferenti; una Chiesa che delega l’accoglienza dei migranti solo a qualcuno, solitamente a quei preti sfigati che vengono tollerati dalla gerarchia e dai cattolici che contano, e che non faranno mai carriera. Eppure l’ospitalità allo straniero dovrebbe essere nel Dna del cristiano; un’ospitalità gratuita, non un’occasione di affari, come già qualche collega prete intravede, lamentandosi delle scarsezze economiche della propria parrocchia.
Signor ministro, con la mia comunità ci siamo detti: facciamo qualcosa di concreto. Non ci eravamo mai occupato di immigrati prima, ma abbiamo deciso di ospitarli e di farci carico della loro situazione. E se i nostri ospiti sono considerati clandestini dalla legge, allora abbiamo discusso e deciso di disobbedire alle leggi. Da tempo avremmo dovuto spalancare le porte per accogliere i rifugiati e i migranti. Molti cattolici si battono per inserire nella Costituzione europea il riconoscimento delle “radici cristiane” del nostro continente. Spesso sono gli stessi che vorrebbero cacciare i profughi dall’Europa, come se le radici cristiane, se ci sono, si riducono ad un freddo crocifisso da imporre nelle aule scolastiche, e non all’accoglienza dei crocifissi in carne ed ossa, dei tanti povericristi.
Proprio noi cristiani avremmo dovuto, già da tempo, invitare i migranti a restare in Italia, avremmo dovuto mandare i traghetti a prenderli sulle coste africane, per non lasciarli crepare in mare. Avremmo già dovuto farlo perché in ogni caso hanno qualcosa da regalarci, perché se restano, possono aiutare il nostro Paese a cambiare. Di fronte alle leggi inefficaci, e a volte razziste, che i vari governi hanno approvato negli ultimi anni per tentare di regolamentare il flusso migratorio, noi cristiani avremmo dovuto proporre e pretendere leggi giuste capaci di regolamentare senza umiliare.
Signor ministro, noi cristiani rivendichiamo il nostro diritto ad essere antirazzisti. La sorte dei migranti ci sta a cuore, è un fatto nostro la loro disperazione, il futuro che attende i fratelli e le sorelle che bussano al cuore della nostra opulenta Europa.
Fabrizio De André, in smisurata preghiera dice: «Ricorda, Signore, questi tuoi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto, ché dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere». Faccia attenzione, signor ministro, ai preti che disobbediscono, sono tanti granelli che possono far inceppare la sua oliata macchina propagandistica, disumana e pericolosa. Si fermi, prima che sia troppo tardi. Lo sappiamo, la Storia non si ripete mai uguale; ma quando si comincia a cavalcare il sentimento di disprezzo nei confronti del diverso da sé, ad attizzare il fuoco della paura, ad indirizzare il malcontento contro un nemico inventato per coprire i propri fallimenti, il finale, dopo aver creato tanta sofferenza, purtroppo è quasi sempre lo stesso: sarebbe una sconfitta per tutti se qualcuno, al termine di tutta questa triste vicenda, finisse nuovamente a testa in giù!
Con cristiana franchezza».
Vitaliano Della Sala è parroco a Mercogliano (AV) e vicedirettore della Caritas diocesana di Avellino
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